Una declinazione teologica     

Pubblichiamo il contributo di fr. Lorenzo Raniero ofm, preside dell'ISE di Venezia, all'incontro con il teologo brasiliano Marcelo Barros "La grammatica del dialogo" che si è svolto ad Altino (Venezia) il 24 settembre 2022. 

È indubbiamente riconosciuto da tutti che nella Chiesa cattolica la vera stagione del dialogo è iniziata con il Concilio Vaticano II, evento straordinario di grazia con cui la Chiesa tende la mano al mondo contemporaneo e desidera entrare in dialogo con tutti gli uomini di buona volontà. La conferma di questo proposito e l’invito alla sua prosecuzione è ribadito anche nell’Enciclica programmatica di Paolo VI Ecclesiam suam (1964) all’inizio del suo pontificato nella quale invita tutta la Chiesa a stabilire relazioni con il mondo che la circonda e in cui essa vive e lavora (cf. ES, 13).

“Si presenta cioè il problema, cosi detto, del dialogo fra la Chiesa ed il mondo contemporaneo” (ES, 15). Lo stesso Pontefice specifica anche i principali caratteri del dialogo che sintetizza nella “chiarezza” di un linguaggio comprensibile, nella “mitezza” di un atteggiamento non orgoglioso, né pungente e tanto meno offensivo, e nella “fiducia” di accogliere amichevolmente la parte dell’interlocutore.
Da quando, quindi, sono stati dati questi chiari segnali di apertura, il termine dialogo è risuonato molte volte nella Chiesa ed è diventato di uso comune, con il rischio anche di fargli perdere tutta la sua complessità e profondità. Ciò accade soprattutto quando il dialogo è considerato in modo unilaterale come una tecnica retorica, simile a quella dei sofisti di platonica memoria, che coinvolge prevalentemente la parte razionale dell’uomo, puntando sul convincimento dell’altro e sulle ragioni per attirare a sé chi la pensa diversamente. In campo ecumenico, invece, per il quale il dialogo è la via privilegiata per l’unità dei cristiani e la comunione in Cristo, pur riconoscendo l’importanza dei cosiddetti dialoghi ecumenici, documenti ufficiali grazie ai quali si sono raggiunte convergenze su questioni teologiche e dottrinali importanti, si sente sempre più il bisogno di arrivare al “dialogo della vita” inteso come processo spirituale condotto congiuntamente nell’amore e nella verità. Infatti il vero ecumenismo non è diplomazia, patteggiamento e compromesso, ma un reale processo d’amore. Abbiamo bisogno di passare dal dialogo “della carta” e delle dottrine, al dialogo della vita, poiché l’ecumenismo è una comunione spirituale della vita e della fede.

Come può dunque il dialogo diventare sempre di più una dimensione dell’esistenza, vale a dire uno stile o una postura con cui si sta nella vita e nelle relazioni ordinarie di tutti i giorni? In alcune sue ben conosciute pubblicazioni1, Brunetto Salvarani teologo e giornalista esperto in dialogo interreligioso, propone dieci vie o indicazioni per questo dialogo della vita. È quello che lui stesso chiama il “decalogo del dialogo”, che raccoglie alcune riflessioni nate dall’esperienza e in diversi contesti di dialogo. Ecco quindi le dieci vie per costruire il dialogo della vita, che provo a commentare.

Il dialogo si fa tra persone. Non sono tanto le idee, le filosofie, i massimi sistemi, le religioni in astratto che entrano in dialogo, ma le persone quando sono messe in condizione di farlo. Nella storia della salvezza, del resto, Dio ha sempre cercato il dialogo con gli uomini attraverso persone concrete (i profeti) e negli ultimi tempi mandando suo Figlio in carne d’uomo (Eb 1,1-2). Dio stesso si fa kenosi per parlare con l’uomo, per entrare in dialogo con l’umanità. Il fondamento di questo primo punto è cristologico dal momento che con l’incarnazione il Figlio di Dio è entrato nel mondo degli uomini per incontrarli e donar loro la vita eterna, il compimento dell’esistenza. Il dialogo tra persone diventa così via di umanizzazione e di pienezza di vita.

Il dialogo si fa partire dalle cose concrete. Si tratta di una specificazione del primo punto: il dialogo si costruisce dentro una storia concreta, con il suo contesto, la sua geografia, la sua cultura, nella capacità di leggere “i segni dei tempi”. Ma la concretezza del dialogo consiste anche nella condivisione delle attività umane ordinarie e quotidiane: come per esempio la vita nella stessa casa di cristiani di diverse confessioni o di persone di religione differenti che coltivano interessi comuni (musica, teatro, sport) e che condividono spazi comuni di vita (cucina, tempo libero, ecc.) Il Movimento ecumenico aveva intuito ancora agli inizi della sua storia come l’azione pratica e l’impegno sociale e civile fossero degli ambiti privilegiati per avvicinare confessioni cristiane diverse. Ne è prova il movimento Vita e Azione (Life and Work) come struttura di collaborazione tra le Chiese cristiane su problematiche di carattere etico-sociale che ha notevolmente contribuito a far avanzare la conoscenza reciproca e alimentare il dialogo della vita.

Il dialogo si fa a partire dalle nostre identità. Il pericolo che per andare incontro all’altro ciascuno annacqui le differenze e di conseguenza indebolisca o addirittura rinunci alla sua identità facendone un qualcosa di vago e indeterminato, è reale. È ingenuo pensare che si possa affrontare il dialogo in modo “neutro”2. Se vuole essere adulto e maturo, il dialogo deve sempre partire da un soggetto che conosce bene se stesso, che ha una identità ben definita, nella consapevolezza però che non è una realtà fissa, rigida e data una volta per tutte (identitarismo). L’identità è invece dinamica, viva, soggetta a crescita, a sviluppo o a regressione. Essa si evolve attraverso le relazioni, gli incontri, mettendosi in gioco; è un processo soggetto alla “contaminazione” che si arricchisce nel contatto e nell’intreccio con l’altro3. Superando certi stereotipi, dunque, l’affermazione di sé (identità), non si oppone alla differenza e al riconoscimento dell’altro. Anzi, dobbiamo ammettere che proprio tramite il riconoscimento dell’altro scopriamo qualcosa della nostra identità, cioè diventiamo sempre più noi stessi. L’identità risiede nella relazione, nel rapporto io-tu, non nel soggetto!

Il dialogo si fa a partire dalle cose che abbiamo in comune. Occorre essere realisti e concreti: se si parte subito dalle differenze, specialmente se enfatizzate, lo scambio risulta difficile. Partire dalla base che ci accomuna, partire dal basso: ecco l’esercizio di umiltà che ci aspetta. Questa metodologia è stata fatta propria anche dai dialoghi ecumenici che nel loro modo di procedere, prevedono sempre un primo momento in cui si fa una ricognizione dei doni che si hanno in comune, delle verità condivise, degli aspetti della dottrina su cui unitamente si converge. Questo riconoscimento produce fiducia reciproca e un buon grado di comprensione. Rivela che tutti condividiamo la medesima condizione umana, sia pur nella differenza delle culture e delle idee. Il processo da mettere in atto è quello di un discernimento che porta a ritenere le cose comuni, condivise, e a relativizzare quelle invece che allontanano.

Il dialogo si fa senza nascondere le cose che ci rendono diversi. Il proseguo del punto precedente è, dunque, come vivere la differenza? L’indicazione è di renderle palesi e di affrontarle a viso aperto, senza nasconderle o peggio ancora camuffarle. In questo senso l’atteggiamento da coltivare è quello della franchezza e della schiettezza, riconoscendo le differenze che abbiamo. Si tratta di un’opportunità per valorizzarle, cogliendo in esse una ricchezza e un dono. In questa prospettiva si parla oggi di ecumenismo recettivo che consiste nel concentrarsi su ciò che abbiamo da imparare dagli altri, piuttosto che su ciò che dobbiamo insegnare. Si tratta di assumere i caratteri di una chiesa discens, prima di proporsi come magistra. È la conversione al discepolato e alla sequela dell’unico Maestro, Cristo Signore. In questa prospettiva, dunque, davanti alla diversità di altre fedi può avvenire quello che Ut unum sint al n. 28 ha chiamato “lo scambio dei doni” che introduce a una pedagogia della differenza4. Se come abbiamo già affermato la nostra identità è un elemento in costante movimento, che si plasma nel relazionarsi alle persone, ai diversi contesti e alle varie situazioni, il confronto con la diversità è richiesto per arricchire noi stessi e ampliare la propria personalità. Davanti alle “differenze” dunque non bisogna aver paura e neppure evitarle. Significative a questo riguardo le parole di papa Francesco: “Non si tratta di renderci tutti più light o di nascondere le convinzioni proprie, alle quali siamo legati, per poterci incontrare con altri che pensano diversamente. Perché tanto più profonda, solida e ricca è un’identità, tanto più potrà arricchire gli altri con il suo peculiare contributo” (Fratelli tutti, n. 282).

Il dialogo si fa, in primo luogo, a partire da qualcuno che racconta. Il racconto o la dimensione narrativa dell’esistenza ha un’efficacia relazionale diversa rispetto alle affermazioni categoriche e perentorie dei dogmi o delle dottrine. Nella narrazione entrano in gioco elementi esistenziali che accomunano e soprattutto che avvicinano le persone a partire dalla vita vissuta5. L’aspetto testimoniale, quello simbolico, le espressioni analogiche sono elementi di una modalità di comunicazione aperta, condivisibile, dove chi ascolta può ritrovarsi. Inoltre il racconto porta con sé la dimensione del tempo6 e quindi apre un processo di sviluppo che cresce e si evolve in base al rapporto comunicativo che si instaura con l’altro. Infine, nel racconto testimoniale c’è la partecipazione anche del proprio mondo emotivo che rivela un alto grado di umanità.

Il dialogo, però, è fatto anche da qualcuno che ascolta. Il dinamismo di un dialogo autentico e fruttuoso ha bisogno dell’ascolto grazie al quale si compie l’incontro, “nell’incontro la relazione e nella relazione la comprensione quale approfondimento e trasformazione dell’esistenza”7. Per il dialogo, l’esercizio dell’ascolto è davvero essenziale. Ma ascoltare è far tacere le molte voci dentro di noi, è mettere tra parentesi gli stereotipi, quello che già si sa dell’altro e anche di se stessi, creando uno “spazio vuoto”, un desiderio e un’attesa dell’altro. In Vita comune, D. Bonhoeffer ci offre delle parole illuminanti: “Il primo servizio che si deve agli altri nella comunione, consiste nel prestar loro ascolto. L’amore per Dio comincia con l’ascolto della sua Parola, e analogamente l’amore per il fratello comincia con l’imparare ad ascoltarlo”8. In tal senso l’ascolto ha una dimensione empatica e affettiva che coinvolge l’uomo nella sua totalità e quindi necessaria affinché si realizzi il dialogo della vita.

Il dialogo non è fatto solo di parole. A partire dal Concilio Vaticano II abbiamo potuto vedere e comprendere la forza simbolica dei gesti: l’abbraccio di papa Paolo VI con Atenagora a Gerusalemme (1964), lo Spirito di Assisi, ossia l’incontro di preghiera per la Pace di Giovanni Paolo II con i rappresentanti delle religioni nel 1986, la visita alla sinagoga di Roma di papa Woytila e l’abbraccio con il rabbino Toaff (1986), l’abbraccio di papa Francesco con Bartolomeo I nel marzo del 2013 e più recentemente (2019) l’incontro di papa Bergoglio con il Grande Imam di Al-Azhar ad Abu Dhabi e la firma del documento sulla Fratellanza universale e tanti altri gesti ed eventi. Abbracci, incontri, viaggi, preghiere, regali reciproci, firme, richieste di perdono, ecc. un universo di segni dalla notevole portata comunicativa che hanno segnato la storia. Testimonianze concrete di quello che è il dialogo della vita.

 Il dialogo è un fenomeno “glocale”. È la sfida dei nostri tempi: stiamo diventando tutti «glocali», ovvero cittadini di un luogo, ma anche globali. Questo è un chiaro invito a vivere il dialogo “ad intra” e “ad extra” in stretto rapporto: se la Chiesa non dialoga al suo interno, se non coltiva e si cura del dialogo tra i suoi membri (clero, religiosi, laici praticanti e non praticanti), non solo non è credibile quando dialoga con il mondo e con le altre religioni, ma neppure vi riesce. L’esercizio della sinodalità dentro la Chiesa (locale) è un esercizio di dialogo che prepara e apre all’incontro con la differenza delle altre confessioni cristiane e delle religioni (globale).

Il dialogo è qualcosa che, mentre lo facciamo, ci arricchisce a vicenda e ci lascia migliori di come eravamo prima. Il frutto del dialogo è racchiuso in questa ultima indicazione che parla di un arricchimento e allargamento della nostra umanità. Infatti, il dialogo fa parte della forma costitutiva della persona, ne rappresenta l’identità, per cui non può ridursi a un’opzione fra tante, da perseguire o meno a seconda delle stagioni. Nella Scrittura l’uomo viene creato dalla parola di Dio non come individuo isolato e solitario, ma come maschio e femmina (Gen 1,26-27), essere sociale, caratterizzato da una vocazione comunitaria e dotato di una dignità inalienabile. La predisposizione all’altro e all’incontro con la diversità risiede nella sua radice più profonda, e quanto più l’uomo si apre a questa realtà, tanto più porta a compimento la sua verità.

La Rivelazione stessa, dunque, avviene e si compie come un processo eminentemente dialogico: è Dio che per sua scelta libera e gratuita si rivolge a tutti gli uomini, dirigendosi a loro come ad amici e invitandoli a entrare in comunione con lui (Dei verbum, n. 2). Tutto questo raggiunge il suo momento decisivo nell’evento-Cristo, nella sua incarnazione, morte e risurrezione. Infatti, nella vicenda esistenziale, nelle parole e nei gesti di compassione e di amore di Gesù Cristo si manifesta il dialogo più intenso fra Dio e l’umanità. Gesù dunque può essere presentato come il compimento e la pienezza del dialogo, l’uomo pienamente realizzato. Di conseguenza, anche la Chiesa, che è suo corpo, è investita di questa vocazione: perpetuare l’incontro e il dialogo tra Dio e l’uomo attraverso i segni sacramentali, e testimoniarlo mediante le sue strutture comunitarie che vanno costantemente sottoposte a verifica per essere sempre più trasparenti a questo mandato. Il cammino sinodale che la Chiesa italiana e universale ha intrapreso vuole essere un recupero e una riscoperta di questa vocazione dialogica e relazionale della Chiesa di Cristo, prima di tutto al suo interno e poi nei confronti di tutti gli uomini, figli dell’unico Dio e Padre di tutti.


Note 

1 Cf. B. SALVARANI, Un tempo per tacere, un tempo per parlare. Il dialogo come racconto di vita, Città Nuova, Roma 2016; ID., Il pluralismo religioso. Scenari, prospettive e principi, in M. DAL CORSO – D. VANNOZZI (a cura), Educare alla diversità religiosa, Quaderni di Studi Ecumenici, n. 41, ISE Venezia 2020, p. 31-33. 
2 Per un dialogo autentico non si può in alcun caso prescindere dall’identità altrui: occorre invece rispettarla «nella sua originalità, conoscendola nella sua diversità ed entrando in un reale rapporto di reciprocità» e che «solamente delle identità religiose vive, profonde e stagliate son capaci di poter conoscere anche le altre, e di interagire con esse» (P. CODA, Nuove frontiere per il dialogo interreligioso, in Protestantesimo 55(2001)56, p. 178).
3 Cf. Z. BAUMAN, Intervista sull’identità, (a cura di B. VECCHI), Laterza, Roma-Bari 2003.
4 Cf. B. SALVARANI, L’alterità come grazia, Pazzini Stampatore Editore, Villa Verucchio (RN), 2021, p. 84-85.
5 Una riflessione sul valore ecumenico e dialogico della narrazione è quella di P. SGROI, Verso un ecumenismo narrativo, Quaderni di Studi Ecumenici n. 37, ISE, Venezia 2018.
6 Cf. P. RICOEUR, Tempo e racconto, 3 voll., Jaca Book, Milano 1986-1988.
7 J. RATZINGER, Perché siamo ancora nella Chiesa, Rizzoli, Milano 2008.
8 D. BONHOEFFER, Vita comune, Queriniana, Brescia, 1991, p. 175.