Giannino Piana recensisce

Ad-dio. Meditazioni antropologiche di Piermario Ferrara

Ad-dio. Meditazioni antropologiche, Interlinea, Novara 2016, pp. 118, E. 18. Un intreccio fecondo di filosofia e di teologia caratterizza queste “meditazioni antropologiche” di Piermario Ferrari, che, lungi dall’essere – come immediatamente potrebbe sembrare – lontane dalla realtà, ci immergono nelle sue profondità ultime, affrontando le domande più inquietanti che ogni uomo pensoso non può evitare di porsi. Lo scenario entro il quale si collocano le riflessioni è quello della società postmoderna, agitata da forti tensioni conflittuali e insieme svuotata di quel tessuto valoriale di matrice religiosa che ha concorso in passato a rinsaldare i vincoli di una forma di civile convivenza. Nonostante l’apparente disorganicità, il volume di Ferrari è attraversato da un “filo rosso” (e incandescente) che lega tra loro i vari contributi, offrendo un quadro di rara suggestione intellettuale, dove le questioni di fondo (e di sempre) si intersecano con temi di attualità esistenziale, i quali ricevono luce, nella loro interpretazione, dagli enunciati teorici presupposti all’intero discorso. Prende così corpo una sorta di circolo virtuoso, che configura uno stile di accostamento alla realtà segnato dall’apertura alla concretezza dei vissuti ma insieme corredato dal riferimento a un paradigma valutativo che consente un serio e puntuale discernimento. Nei primi quattro capitoli, al di là della delineazione dell’attitudine interiore che l’uomo deve assumere se intende porsi in maniera non alienata di fronte agli avvenimenti dell’esistenza – attitudine che ha il suo epicentro nel “”cuore” in quanto luogo originario dell’aprirsi/chiudersi al Mistero – ad occupare un ruolo centrale è il problema di Dio. Il famoso detto heideggeriano, che ha il sapore di una invocazione: “solo un Dio potrà salvarci”, sembra scontrarsi con l’assenza di fatto di ogni vestigia divina o con quella che Hegel definisce come “pochezza teologica” la quale diviene, a sua volta, “pochezza antropologica”. Ma la situazione contemporanea è più complessa; non può (e non deve) essere letta con un criterio univoco. Ad essa afferiscono fattori diversi (persino contradditori) che rendono ragione della sua costitutiva ambivalenza. Dubbio e paure attraversano la coscienza dell’uomo, che non rinuncia alla ricerca della felicità e della gioia, e le vede tuttavia insidiate da mille ostacoli legati all’avanzare di una cultura (meglio sarebbe dire da un’anticultura) che addotta come parametri di giudizio la logica mercantile e il successo mondano. La nostalgia di Dio rinasce come antitesi a questo modo di guardare e pensare il mondo, al di fuori però di narrazioni metafisiche forti – è questa la tesi di Vattimo e del “pensiero debole” in generale – e nel segno di una debolezza, la quale ha nella kenosis del Verbo la propria identità, dando origine a sentimenti ispirati alla pietas e alla comprensione dell’altro. Ma è sufficiente questa visione – si chiede Ferrari – a dare risposte adeguate alla odierna crisi antropologica, che coinvolge individuo e società e che – come si sostiene nella fase immediatamente successiva della riflessione – manifesta tratti preoccupanti di conflittualità distruttrice? Le malattie che affliggono oggi la condizione umana sono molte e di diversa natura. E nondimeno al vertice di esse campeggia in Occidente la volontà di potenza, che assume i connotati della violenza – da più parti e con vari argomenti giustificata anche in ambito filosofico (e persino teologico) – e che, più radicalmente, trova la sua radice nel primato dell’avere, il quale non si identifica soltanto con il possesso del danaro ma anche (e soprattutto) con l’esercizio del dominio sull’altro e sulla natura. La salvezza va allora ricercata in un Dio che, passando attraverso la morte, (e la morte di croce) si manifesta in definitiva nello splendore glorioso della risurrezione. Solo dall’incontro con questo Dio è possibile attingere la vera gioia ed essere, nello stesso tempo, resi capaci di vivere la vera pietà (la quale supera la pietas della postmodernità) che vince ogni forma di violenza e ogni tentazione autoreferenziale per rendere testimonianza alla carità, la quale implica il dono di sé nella consapevolezza che soltanto perdendosi è possibile ritrovarsi. Il percorso che garantisce il perseguimento di questo obiettivo è di ordine razionale – il pensiero è infatti il primo antidoto nei confronti di ogni umana prevaricazione – ; e comporta la necessità di misurarsi con una “metafisica” duttile, che non disdegni l’ironia e sappia fare debitamente i conti con la realtà della natura, ripudiando il naturalismo scientista riemergente – l’epigono è oggi rappresentato in proposito dalle neuroscienze – e facendo propria la categoria di “creazione”, nonché integrando nell’esistenza quotidiana il tempo reale e accettando di pensare con verità il mistero della morte. Il libro si chiude con il richiamo all’esigenza di un’azione educativa e politica che si pongano al servizio di tale obiettivo, la cui attuazione è garanzia del ritrovamento di un “senso” che non si limita a riscattare la vita del singolo, ma diviene stimolo al ribaltamento delle logiche socialmente dominanti e alla costruzione di una nuova cultura in grado di dare vita a un autentico umanesimo. Un libro dunque – quello di Piermario Ferrari – che offre spunti di grande finezza sapienziale per lo sviluppo di una ricerca che, nello spirito stesso dell’autore – il suo è infatti un pensare aperto e dialogico – merita di essere ulteriormente proseguita.

GIANNINO PIANA