di Nathan Levi, in Settimana News, 10 luglio 20205

Da bambino conobbi il volto genocida dell’umanità. Negli anni ’50, in Israele, anche per noi piccoli era impossibile sottrarsi agli orrendi racconti sulla Shoah. Per proteggere la mia gioia di vivere, mi aggrappai alla convinzione che tanta ferocia fosse appartenuta solo a un ristretto gruppo di esseri umani – i nazisti – ormai eliminati per sempre dai “buoni”.
Crescendo e invecchiando, dovetti arrendermi di fronte all’evidenza storica e attuale: anche altri popoli sono stati e continuano a essere capaci di atti disumani, soprattutto durante le guerre. Compreso il popolo in cui sono nato che, pur segnato dalla tragedia dell’Olocausto, non è immune da questa deriva, come emerge con drammatica evidenza dall’attuale conflitto a Gaza.

È quindi evidente che la capacità di trasformarsi da individuo “civilizzato” a protagonista di genocidi appartiene intrinsecamente alla natura umana. 
Le riflessioni del giornalista israeliano Gideon Levy sulla disumanizzazione del diverso mi hanno colpito profondamente. È un tema che offre una chiave di lettura importante per comprendere – non certo per giustificare – la tragedia che si sta consumando a Gaza.
Con questo intervento condivido una sintesi delle mie letture su questo argomento. Il processo chiave sembra consistere nella capacità della nostra mente di “disumanizzare” coloro che percepiamo come diversi.
Il meccanismo della disumanizzazione. C’è un momento preciso in cui l’altro smette di essere umano. Non accade improvvisamente, come un interruttore che si spegne, ma attraverso un processo graduale e terribilmente efficace che la scienza moderna sta iniziando a decifrare. Prima che le mani si macchino di sangue, le menti hanno già compiuto il loro lavoro più oscuro: cancellare l’umanità dal volto del nemico.
La disumanizzazione del diverso non è un concetto astratto né una metafora filosofica. È un fenomeno biologico misurabile, con circuiti neurali specifici che si attivano nel nostro cervello seguendo percorsi ben definiti. Due meccanismi neurobiologici principali conducono alla negazione dell’umanità altrui.

Primo meccanismo: la metamorfosi in animale
Nel primo, il nostro cervello sfrutta gli stessi circuiti che ci fanno provare ribrezzo per il cibo marcito per rifiutare chi è diverso da noi. È così che nascono le parole che riducono gli esseri umani ad animali ripugnanti: vermi, ratti, scarafaggi. I nazisti conoscevano bene questo meccanismo quando chiamarono gli ebrei “parassiti” e “ratti da eliminare”.
I massacri in Ruanda del 1994 offrono un altro esempio agghiacciante. I Tutsi non erano più persone da uccidere, ma “scarafaggi da schiacciare”, “erbacce da estirpare”. La radio ripeteva ossessivamente questi termini, preparando metodicamente la mente degli Hutu al genocidio. In soli cento giorni, un milione di persone fu massacrato con machete e bastoni chiodati, spesso da vicini che fino al giorno precedente condividevano la stessa esistenza quotidiana.
Dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, che uccise selvaggiamente oltre 1.200 israeliani, la risposta israeliana è rapidamente sfuggita di mano. Quello che molti osservatori internazionali chiamano ora un genocidio in diretta TV mostra lo stesso meccanismo all’opera. Le parole usate sono identiche: i palestinesi sono diventati “animali umani” da eliminare, Gaza un “nido di vipere” da “bonificare”. Il ministro della Difesa israeliano lo ha detto chiaramente: «Combattiamo contro animali umani». Non sono metafore di guerra, ma istruzioni precise di disumanizzazione atte a spegnere la compassione e a procedere con lo sterminio.

Secondo meccanismo: la riduzione a oggetto
C’è un secondo meccanismo neurobiologico altrettanto devastante. Un meccanismo più diretto che fa a meno delle parole spregevoli: il cervello è in grado letteralmente di “spegnere” la nostra capacità di vedere l’altro come essere umano. Le persone diventano semplici oggetti eliminabili senza rimorso.
I contesti bellici rappresentano il laboratorio perfetto per questo meccanismo. Lo stress cronico legato alla guerra rende iperattiva l’amigdala – il centro della paura e dell’aggressività – e, nel contempo, disattiva le aree della razionalità e dell’empatia.

Gaza: disumanizzazione in diretta
Oggi nella Striscia di Gaza la disumanizzazione rivela la sua faccia più cruda. Ogni giorno, civili palestinesi vengono uccisi mentre fanno la fila per il cibo, mentre cercano acqua, mentre tentano di proteggere i propri figli.
Le immagini sono diventate routine: corpi dilaniati sulle strade, bambini estratti dalle macerie, famiglie intere cancellate. Ma la ripetizione quotidiana di queste scene non genera più indignazione, bensì indifferenza. È il trionfo della disumanizzazione che si estende agli spettatori: quando la morte dell’altro diventa cronaca, smette di essere tragedia.
I palestinesi non sono più persone che soffrono, ma “scudi umani” usati da Hamas. Non sono civili che muoiono, ma “danni collaterali” inevitabili. Non sono bambini che piangono, ma “futuri terroristi” da eliminare preventivamente. Ogni morte viene assorbita in una narrazione che la rende accettabile, persino necessaria.
Come ha osservato Gideon Levy, editorialista del quotidiano israeliano Haaretz: «Questo non è per niente nuovo. Ed è un mezzo necessario perché, se i nostri avversari sono esseri umani, noi abbiamo un problema. Un problema morale, un problema di diritti fondamentali, un problema di coscienza. Se non sono veramente esseri umani, tutto è più facile. Se tutta Gaza è Hamas, se tutti sono terroristi, e se nessuno viene visto come essere umano, questo è il primo passo per spegnere la coscienza: disumanizzare l’altro, e tutto è più semplice».

La matematica della disumanizzazione
La risposta israeliana al 7 ottobre ha rivelato anche come la sproporzione non sia un effetto collaterale, ma una strategia deliberata di disumanizzazione. Per ogni israeliano ucciso, decine di palestinesi devono morire. Non per necessità militare, ma per ribadire una gerarchia di valore delle vite umane. È la matematica della disumanizzazione: alcune vite contano più di altre, alcune morti sono più importanti di altre.
Il bombardamento sistematico di Gaza ha prodotto quasi 60 mila morti palestinesi, la maggior parte civili, in risposta ai 1.200 israeliani uccisi il 7 ottobre. Ma i numeri raccontano solo una parte della storia. La vera strategia è la distruzione della normalità: non basta uccidere, bisogna rendere impossibile la vita stessa, distruggendo ospedali, scuole, pozzi d’acqua.

Altri casi di disumanizzazione
La disumanizzazione del diverso si manifesta anche nei confronti dei migranti. L’amministrazione Trump ha portato questo processo al suo apice, trasformando la migrazione in un’emergenza esistenziale. I bambini separati dalle famiglie al confine messicano non sono più bambini, ma “giovani criminali”. Le madri che cercano asilo politico diventano “attrici” che fingono disperazione per ingannare le autorità.
Quando la disumanizzazione si intreccia con il fanatismo religioso, gli effetti si moltiplicano. L’ISIS brucia vivi i piloti giordani, persino i buddisti birmani massacrano i Rohingya: tutti condividono la stessa convinzione di compiere un atto necessario; l’altro non è solo sub-umano, ma nemico di Dio stesso.
Durante le Crociate, i musulmani erano “infedeli” da convertire o da eliminare. Nella Spagna del XV secolo, gli ebrei diventavano “marranos” – porci –, anche dopo la conversione forzata. I nativi americani erano “selvaggi senz’anima” per i conquistadores spagnoli, giustificando secoli di genocidio mascherato da missione civilizzatrice.

Le radici evolutive del male
Ogni volta che riduciamo l’altro a una categoria – il migrante, il terrorista, il diverso –, attiviamo gli stessi circuiti neurali che hanno reso possibili i genocidi del passato e quelli di oggi. La distanza tra le parole che disumanizzano e l’atto che uccide è più breve di quanto vogliamo ammettere.
Oggi le neuroscienze ci offrono una mappa precisa di questi territori oscuri della mente. Ci spiegano che la disumanizzazione non è un difetto del carattere o una debolezza morale. È una caratteristica del cervello umano, un meccanismo evolutivo che ci ha aiutato a sopravvivere in gruppi piccoli distinguendo rapidamente “noi” da “loro”. Ma ciò che era utile nelle savane dell’Africa orientale diventa letale e imperdonabile nelle società complesse di oggi. È possibile che gli stessi meccanismi neurobiologici permettano agli animali carnivori di uccidere e mangiare le loro prede: ma questa è solo un’ipotesi personale.

La responsabilità della civilizzazione
Il fatto che il nostro cervello sia naturalmente predisposto a disumanizzare per uccidere non può giustificare i crimini a cui assistiamo ogni giorno.
I responsabili di massacri e genocidi devono essere puniti per ribadire un principio fondamentale: la civilizzazione ci impone di rispettare le regole di convivenza stabilite attraverso i trattati internazionali. La condanna dovrebbe colpire anche chi alimenta attivamente queste capacità genocide fornendo armi e sostegno politico.
Conclusione: abbiamo visto come la disumanizzazione non sia un relitto del passato, ma un presente sempre possibile. Vive nelle nostre sinapsi e si annida nelle nostre paure. Riconoscerla non basta a fermarla, ma è il primo passo per non diventarne complici inconsapevoli.