di Sandra Savogin 

Pubblichiamo un profilo di Vinicio Morini (1925-2024), dirigente partigiano, militante politico, impegnato nelle battaglie per la tutela ambientale, promotore culturale. Lettore della rivista e socio di Esodo, molto attento a tutti i nostri temi, da quelli etico-culturali a quelli sulle questioni di fede e di religione, sempre con profondità critica e ampiezza di vedute.

Nato a Mirano nel 1925, si trasferì nel 1938 a Mestre in Via Col di Lana con la famiglia in cui erano in 10 figli. A 16 anni nel 1941 trovò un lavoro presso lo stabilimento Lavorazione Leghe Leggere a Porto Marghera, nel reparto presse con turni alternati di 12 ore dalle sei del mattino alle sei della sera e dalle sei della sera alle sei del mattino. L'Italia era in guerra già da un anno.

La sua casa era situata in una zona vicino alla stazione in un quartiere di vie tutte intitolate alle sanguinose battaglie della prima ora mondiale: Monte Grappa, Monte Sabotino, Monte Podgora. Il quartiere Piave che a sua volta fu distrutto dai bombardamenti aerei, compresa la mia casa.
Strinse amicizie con giovani delle vie vicine: Mario Balladelli, studente di filosofia all'università di Padova; Giuliano Lucchetta, studente di lettere alla stessa università; sua cugina Ada Salvagnini diplomata maestra; Sergio Fiumicino che aiutava il padre nella conduzione dell'autoscuola Fiume vicino alla stazione in via Piave. I loro incontri seguivano interessi comuni attraverso lunghe conversazioni, letture e anche distrazioni. La guerra arrivava nelle loro case con il clamore dei comunicati speciali della radio: invasioni, distruzioni e nemici uccisi seguiti dai commenti di Mario Appelius che iniziavano con lo slogan “Dio stramaledica gli inglesi”. L’ Inghilterra aveva dichiarato guerra alla Germania dopo l'invasione della Polonia e subito dopo fu la volta di Francia, Olanda, Belgio Russia, Grecia, Balcani fino al Nord Africa. È in questa situazione che nel piccolo sodalizio giovanile s’inserisce la figura di Leone Moressa, il calzolaio d'angolo tra via Monte San Michele. Verso Vinicio, giovane operaio e cliente, egli manifestava una particolare attenzione. Voleva conoscere la sua vita in fabbrica e su quell'onda l'umore gli operai, il lavoro estenuante, la guerra.
Leone Moressa era un comunista: cinque anni di confino e sorvegliato speciale una volta scontata la pena. Così per molti comunisti, socialisti e membri di altri partiti antifascisti. Leone Moressa seguiva la guerra dal suo banco di lavoro, ma la sua anima era altrove, soprattutto nei vari fronti di guerra, in particolare il fronte russo. Con lui iniziò una stretta relazione che subito comprese tutto un gruppo di amici. È questo angolo della città - Mestre allora contava poco più di 30.000 abitanti - che vide nascere uno dei primi nuclei attivi politicamente impegnati nella lotta contro la guerra e la dittatura nazifascista. Il 25 luglio del 1943, a seguito di manifestazioni di lavoratori a Torino e Milano, il gruppo era riunito in casa di Giuliano verso le 10 del mattino intento a stampare a ciclostile un volantino diretto gli operai di Porto Marghera per manifestare apertamente contro la guerra e per migliori condizioni di vita. Improvvisamente la radio cessò di trasmettere musica e subito subentrò la lettura di un comunicato speciale: il Gran Consiglio del fascismo annunciava le dimissioni di Mussolini da capo del Governo. Con le dimissioni del Duce saltò il blocco di potere. L'antifascismo riprese forza sul crollo del trionfalismo imperiale, crollo venne definitivamente costatato con lo sbarco di contingenti anglo-americani sulle coste siciliane il 10 luglio del 1943.
La loro attività era altamente rischiosa ma i nuclei operai attivi non potevano non fare la loro parte nella lotta contro la guerra e lo sfruttamento. Nella sua fabbrica costituì con altri compagni subito una delegazione operaia che chiese di incontrare il direttore, una richiesta inconcepibile fino ad allora. Tuttavia l’incontro ebbe luogo: fu letta una dichiarazione che chiedeva migliori condizioni di lavoro di salario e la nomina di una commissione rappresentativa di lavoratori della stessa fabbrica. I membri della delegazione, tra i quali lo stesso Vinicio, furono subito sospesi dal lavoro con la minaccia di immediato licenziamento. Non si dettero per vinti. Il nucleo di fabbrica cercava di allargare la partecipazione nei contatti con altre fabbriche attraverso incontri organizzati nei luoghi più appartati, come per esempio la grande buca prodotta da una grossa bomba esplosa nella campagna di via Bissuola, vicino alla casa di un compagno contadino. Illuminati dalla luna ascoltiamo Gordiano Pacquola, muratore di San Donà di Piave. Portava notizie e indicazioni del “centro” del Partito Comunista clandestino. Condannato dal Tribunale Speciale per i delitti contro lo Stato, era un sorvegliato speciale in libertà vigilata.
L'8 settembre produsse una crisi definitiva. La fuga e l’armistizio badogliano portarono al collasso totale il sistema politico, militare ed economico del paese. Il popolo restò solo, senza guida di fronte alla guerra combattuta sul suolo nazionale dalle armate alleate contro le armate tedesche in ritirata. Sui vari fronti i soldati e gli ufficiali italiani abbandonarono le linee e rientrarono disordinatamente in patria. Molti reparti furono posti di fronte a una scelta durissima: o combattere al fianco dei tedeschi o finire nei campi di lavoro in Germania per la guerra nazista. Dopo la cruenta pagina di Cefalonia, tanti reparti di altri fronti vennero inviati come prigionieri in Germania, perché rifiutavano di continuare la guerra. È questa in realtà la prima forma di opposizione e resistenza che si manifestò tra i soldati ufficiali italiani e che non ha sempre trovato il giusto posto nella storia della lotta di Liberazione. L'8 segna anche l’avvio del tentativo di Mussolini di costituire un nuovo ordinamento di Stato sul territorio occupato dai tedeschi e al servizio dei tedeschi nella fase di formazione della linea gotica: la Repubblica di Salò. Il Duce, oltre a introdurre nuove classi di giovani per la formazione di un nuovo esercito organizzò, nell’estate del 1944, una forza speciale di polizia politica, la Brigate Nere, con il compito di reprimere ogni manifestazione contraria al regime e di seminare il terrore fra le popolazioni inaugurando la pratica della tortura dei prigionieri, spettacolari esecuzioni sommarie nelle piazze di città e paesi. Una pagina del tutto nuova che rivela come la ferocia ideologica non conosca limiti.
Morini venne chiamato alle armi il 18 novembre del 1943: da appena sette giorni aveva compiuto 18 anni. Doveva presentarsi alla caserma Piave a Mestre. Il 1925 è una delle classi, destinate a fornire nuovo sangue alla guerra continuata da Mussolini per assicurare la ritirata alle truppe tedesche fino alle Alpi una volta sfondata la linea gotica. In questa situazione il gruppo di amici si sciolse: Mario Balladelli - che da quel momento prese il nome di chiamerà Massimo - e Giuliano Lucchetta, “Abe”, raggiunsero il basso sandonatese dove era in formazione un reparto partigiano comandato da Gilberto Panont di San Stino di Livenza, nome di battaglia “Treviso”. Ada Salvagnini, “Diana”, diventerà una preziosa staffetta tra i gruppi clandestini armati e subirà una dura prova fisica nello svolgimento di questa attività.
Morini fu contattato da Giuseppe Reato, “Otello”, parrucchiere per signora in campo Santa Maria Mater Domini a Venezia, esponente della clandestinità comunista con altri come Romano Zaffalon, titolare di una Profumeria e Bepi Carta, titolare della cartoleria vicino al ponte di San Polo e ancora l'avvocato Longobardi Enrico, comunista e gli avvocati Sullam e Ottolenghi, socialisti. Reato gli propone di trasferirsi a Venezia per dare vita alla produzione di stampa clandestina, necessaria all'opera d’informazione e indirizzo nella crescente e diffusa attività, armata e non, in città e in provincia. “Otello” lo attese alla stazione di Mestre; presero l'ultima corsa per Venezia e raggiunsero il ponte dell'Accademia. Pochi passi verso San Vio ed entrarono in una casa molto alta per salire a una porta all'ultimo piano che aprendosi mostrava un grande studio di pittore, la cui vetrata dava a una terrazza dalla quale si ammiravano i tetti di mezza Venezia: uno scenario indimenticabile per chi era cresciuto in terraferma.
Questo luogo fu per dieci mesi il “buco stampa” clandestina. Qui si stampava “Fronte Unico”, bollettino di informazioni notizie di orientamento politico. Qui si incontravano talvolta dirigenti regionali per rapidi scambi. Qui conobbe e fece amicizia con due belle figure giovanili: Franco Arcalli, “Kim”, e Ottone Padoan “Michele”. Erano loro i corrieri che gli portavano la carta per stampare a ciclostile e ritiravano la produzione pronta. Qui assistette a discussioni che seguivano il discorso di Togliatti a Salerno nel 1944, circa la necessità di un grande fronte unitario antifascista fino a comprendere i monarchici e ancora sul concetto di democrazia progressiva, che faceva storcere la bocca ai seguaci di posizioni popolari più radicali. Qui conobbe giovani professori universitari padovani, ma veneziani; Giorgio Trevisan, “Aurelio”, ed Ettore Pancini, “Achille”. Ma le visite più gradite erano Kim e Michele, con i quali passò anche qualche ora di allegria. L’ambiente era lo studio del pittore Armando Pizzinato, “Stefano”, e a mezzogiorno il cibo mi veniva portato da Libertà figlia del titolare della vicina osteria, un vecchio anarchico, Spina. Libertà era la moglie di un combattente della guerra civile spagnola. Dal buco sentì benissimo e scorse il fumo emesso dall'esplosione della bomba che fece saltare Ca’ Giustinian, dove si erano insediati il comando della Guardia Nazionale Repubblicana e un comando tedesco. Assistette anche alle evoluzioni dei bombardieri americani nella terribile distruzione di Treviso.
Dopo 10 mesi, chiese di uscire dal buco stampa per continuare la lotta in altro luogo e in alto modo. Con la bicicletta raggiunse il gruppo partigiano “Treviso” in una località vicina a Eraclea tra le grandi mezzadrie dei terreni unificati dal fascismo e assegnati ai grandi proprietari, sulla base di contratti ingiusti sui quali si discuteva nelle riunioni notturne con gli stessi conduttori. Località: Stretti, Sindacale, Brussa e altre. Partecipò ad azioni notturne nascondendosi nei locali delle idrovore. Venne quindi inviato a partecipare un corso di preparazione politica presso il comando della divisione partigiana “Garibaldi Friuli” insediata a Claut, un piccolo abitato sotto le Alpi friulane. Raggiunse Claut in bicicletta insieme con altro compagno di Portogruaro. La divisione era comandata da Giovanni Padoan, “Vanni”, e dal commissario politico Andrea Lizzero. Vi rimase soltanto qualche giorno perché una poderosa offensiva tedesca costrinse a disperdersi le forze partigiane. Ritornò a piedi attraverso le montagne fino a Medusa, per ricongiungersi alla formazione di “Treviso” da cui era partito.
Intanto la situazione generale cambiò con la ripresa dell'avanzata alleata. Vinicio e Balladelli ritornarono a Mestre, con il compito di coordinare più strettamente attività e decisioni in vista della ritirata tedesca e della liberazione. Ripresero i contatti con le formazioni partigiane attorno al territorio mestrino: Marcon, Quarto d’Altino, Favaro, Dese e la zona lungo il Brenta, particolarmente il mirese, area di tradizione socialista e comunista prima del fascismo. Il loro lavoro diventò più pericoloso e che più visibile e infatti, non passò inosservato alla vigilanza delle Brigate Nere che certamente disponevano di informatori. La sede delle Brigate Nere era nel palazzo centrale di Mestre il cui arco d’entrata porta ancora oggi alla zona del mercato verso i magazzini Coin. A febbraio del 1945 stava per dirigersi a un appuntamento con corriere, fissato presso la rotonda di viale Garibaldi, quando davanti anche il caffè Giacomuzzi - allora proprio di fronte alla Chiesa sotto i portici - venne assalito alle spalle da un nugolo di Brigate Nere che lo pestarono in tal modo da fargli perdere i sensi. Si risvegliò mezzo nudo in una stanza senza sapere dove si trovava. Tra la paglia sparsa, che serviva da letto, si distinguevano due figure: i fratelli Vanin di Asseggiano. Portava con sé documenti e denaro liquido da consegnare al corriere. Erano prove inequivocabili della sua appartenenza le forze partigiane. Da quel giorno iniziano interrogatori estenuanti alternati a pestaggi e torture di cui porta ancora i segni. Questi trattamenti si prolungarono anche dopo l'arresto di Massimo. Erano mirati a ottenere da lui informazioni più rapidamente, perché più giovane. Ma la situazione esterna precipitò. Udirono di notte il passaggio delle truppe tedesche in ritirata, quando il mattino del 27 aprile si aprì la porta della prigione e l'avvocato Agusson del Partito Socialista italiano si presentò dichiarando liberi tutti i prigionieri in nome del Comitato di Liberazione Nazionale della zona.
La caccia ai più crudeli membri delle Brigate nere cominciò subito dopo. Nella piazza d’Armi del cinquantunesimo reggimento di fanteria in viale Garibaldi venne organizzato il processo davanti a un gran numero di persone che assistettero all’esecuzione di due brigatisti, mentre i più giovani vennero assegnati alla giustizia ordinaria data l'età. Avevano 16 anni.
La storia personale di Vinicio ha costituito una bellissima, toccante testimonianza di coraggio e impegno civile e un esempio di autentica fede negli ideali posti alla base della Repubblica Italiana, e a cui anche nel dopoguerra è rimasto sempre fedele attraverso la lunga militanza nel P.C.I., per il quale fu consigliere comunale a Mirano per 20 anni. Tra il 1970 e il 1990 fu titolare della Libreria Moderna di Piazza Ferretto, punto d'incontro, di confronto e di discussione per tanti giovani e, più recentemente, fu attivo nelle battaglie per l'ambiente in "Italia Nostra", di cui Vinicio è stato tra le figure più importanti di questo territorio. Si è spento a 98 anni a Mirano il 27 aprile 2024.