di Lucia Capuzzi, in Avvenire del 19 settembre 2023

Si potrebbe chiamare “sindrome della Fortezza Bastiani”. Quella del tenente Giovanni Drogo, creato dalla penna di Dino Buzzati che, chiuso nella cittadella militare, trascorre l’intera esistenza nell’attesa di nemici immaginari, senza più riuscire a “tornare nel mondo”. O, per i lettori più giovani, potremmo utilizzare una metafora mutuata dal “Trono di spade”: la “sindrome del Castello nero e della Barriera di ghiaccio”, quando i bellicosi “sette Regni” sperano, invano, con quest’ultima, di mettersi al riparo “dagli estranei” alias i mostri. Sono trasposizioni letterarie e cinematografiche della tendenza umana a rintanarsi dietro mura possenti nell’illusione di sfuggire al caos.

La paura e l’arroccamento si fanno più forti nei tempi di mutamento accelerato. Come quello attuale, in cui assistiamo a un autentico cambiamento d’epoca. Più la società si fa liquida – insegna Zygmunt Bauman – e la “deregulation” sociale, civile, finanziaria assolutizzata ne diviene la cifra distintiva, più anche la paura si fa tale: imprecisa, mobile, elusiva, modificabile, difficile da identificare con esattezza.

Al di là delle strumentalizzazioni politiche, la radice del rifiuto diffuso nei confronti dei migranti affonda qui, nel terreno di una globalizzazione sfuggita di mano e diventata spesso ferocemente ultraliberista. Il peso dei suoi evidenti squilibri è ricaduto, finora, soprattutto sulle spalle del Sud geopolitico, in termini di incremento di diseguaglianze, distruzione delle economie locali, predazione delle risorse naturali e, cosa non meno importante, incremento della violenza. Negli ultimi decenni, i conflitti sono stati espunti verso i margini del sistema.

Nell’indifferenza generale, Africa, Asia, America Latina sono state dilaniate da guerre cruente quanto invisibili. Il migrante, nel suo errare dolente, sintetizza questo “mondo barbaro” che si estende oltre i confini dell’Occidente. E che quest’ultimo finge di non vedere, salvo intrattenervi ottimi rapporti d’affari o appaltargli il “lavoro sporco”. Fragile, disperato, vulnerabile, in fuga perenne da economie dissestate dai cambiamenti climatici, violenza bellica, abusi e vessazioni da parte di regimi autoritari, il profugo costringe gli abitanti dei luoghi in cui cerca rifugio a guardare in faccia i propri fantasmi. Cacciandolo crede di restare immune dal male dilagante. Peccato che i nodi irrisolti – e artificialmente espulsi – vengano, prima o poi, al pettine.

L’Ucraina, tragicamente, docet. La filosofa Adele Cortina rifiuta, però, di vedere nell’astio verso i migranti un’espressione di razzismo. Per spiegare tale sentimento, l’intellettuale spagnola ha coniato il termine “aporafobia”, odio verso i poveri. Sono questi gli stranieri rifiutati, non quanti investono le risorse di cui dispongono per spostarsi da un Paese all’altro, perseguendo così propri interessi, personali e professionali. I muri sono fatti per fermare i migranti, non i viaggiatori. Non ci riescono, però. Perché, slogan a parte, quando la fuga è l’unica speranza, per quanto remota, di sopravvivere, l’essere umano diviene inarrestabile. A restare imprigionata nella gabbia è, invece, la società che l’ha fabbricata. «Chi costruisce un muro – scrive papa Francesco in “Fratelli tutti” – finirà schiavo dentro ai muri che ha costruito, senza orizzonti».

Perché gli manca l’alterità. La politica, nazionale e internazionale, ormai, ne è ostaggio. Da dove, allora, può venire la chiave per aprire le porte della labirintica “Fortezza Bastiani”? I lampedusani, negli ultimi giorni, ci hanno indicato, letteralmente, una via d’uscita. Pescatori e gente comune hanno scelto di guardare negli occhi i migranti che si sono trovati di fronte e che sempre hanno contribuito a salvare: il giovane nigeriano a cui una famiglia ha donato la maglietta del nipote, il ragazzino tunisino invitato la domenica a pranzo, la donna incinta che hanno accompagnato dal medico. Forse, chi vive in un’isola impara a proprie spese che «nessun uomo è un’isola». Fatto sta che in questi anni, Lampedusa è stata una barca di salvataggio nel grande mare della paura e della miopia globale.