di Giannino Piana 

La politica non si fonda su sé stessa. Ha bisogno di un humus antropologico e valoriale, in cui affondare le proprie radici e dal quale ricavare gli indirizzi che ne guidano l’azione. Il pensiero occidentale si è confrontato, fin dalle origini, con questo problema, proponendo soluzioni diverse a seconda dei  vari momenti storici e dei vari contesti socioculturali. I modelli che si sono succeduti e alla base dei quali vi sono concezioni diverse dell’uomo (e del mondo) sono riconducibili a tre fondamentali: quello più tradizionale che fa riferimento alla “legge naturale”, quello “contrattualista” che ha caratterizzato l’intero corso della modernità, e infine quello “relazionale”, che ha acquisito ai nostri giorni una consistente credibilità a livello teorico, anche se è ancora poco utilizzato nell’ambito della prassi politica.

Daremo qui conto sinteticamente del primo modello (1), dedicando successivamente attenzione al secondo (2) ma approfondendo soprattutto il  terzo, quello “relazionale”, che sembra meglio corrispondere a una visione positiva e dinamica della politica, capace di dare ad essa un solido fondamento e di tenere in seria considerazione il carattere storico-evolutivo che la contrassegna; carattere reso oggi ancor più evidente che per il passato in ragione della radicalità e della rapidità dei mutamenti in corso (3).

1. Nascita e e sviluppo del modello “naturalistico”
 Il pensiero filosofico dell’Occidente ha fondato, fin dall’inizio, la politica su una visione della “natura” dell’uomo come “essere sociale”, dunque come un essere costitutivamente aperto alla società in cui trova la propria realizzazione. Aristotele, che è giustamente considerato il padre fondatore della scienza politica, definisce l’uomo “animale politico” (politikòn zoon) e concepisce la felicità, che è l’obiettivo della vita morale, come “felicità pubblica”, come una realtà che si attinge cioè solo nel rapporto con gli altri che ha luogo nella polis. A determinare gli sviluppi dell’azione politica è dunque una legge inscritta nella “natura” dell’uomo, dalla quale traggono origine le varie virtù civiche, prima fra tutte la giustizia (4). 
Questa concezione si prolunga lungo il corso delle storia non solo nell’ambito del mondo greco-romano, ma anche in quello cristiano dai primi secoli fino all’epoca medioevale con un chiaro riferimento religioso – la legge naturale è interpretata come emanazione della lex aeterna divina che ha nella creazione la sua origine – ma con la sostanziale convergenza attorno all’idea di “natura umana” come “natura sociale”. Tommaso d’Aquino riprende la versione aristotelica, conferendole un fondamento ontologico e mettendo l’accento sulla “socialità” come fattore essenziale dell’essere umano. La definizione dell’uomo come “animale sociale” (animal sociale) è ricondotta al nucleo profondo degli elementi formali che definiscono la “natura umana” (e dunque la legge naturale) nella sua immutabilità. La beatitudo, la cui pienezza è attingibile solo nella vita eterna –  nella beata unio cum Deo – trova attuazione parziale già quaggiù nell’esercizio delle virtù, al cui centro vi è la “giustizia sociale”, che è per l’’Aquinate la giustizia per eccellenza, dalla quale discendono la giustizia commutativa e distributiva (5).

2. Il passaggio nella modernità al modello “contrattualista”
A determinare una vera e propria inversione di tendenza rispetto alla fondazione della politica sulla “legge naturale” ha concorso un insieme complesso di fattori tra loro interagenti, legati ai mutamenti socioculturali che hanno caratterizzato la modernità. Il primo di tali fattori (spesso dimenticato o sottaciuto) è l’affermarsi del Nominalimo, un sistema filosofico che vanifica in radice la stessa possibilità di parlare di “natura” (e di “legge naturale”) perché, partendo dalla considerazione della assoluta singolarità della realtà, nega che il “concetto” abbia a che fare con essa, che si riferisca cioè a ciò che la realtà è. Esso è un semplice flatus vocis, una etichetta applicata dall’esterno alla realtà per mera convenzione, che tuttavia non dice nulla della sua essenza. “Natura” e “legge naturale”, in quanto appartenenti all’area dei concetti, risultano del tutto svuotate del loro contenuto e rese evanescenti (6).
A questo primo dato si associa (e con esso interagisce) l’emergere, tanto sul versante laico che su quello religioso, di una concezione radicalmente pessimistica dell’uomo. Da un lato, rifacendosi alla lezione della storia di cui ripercorre le fasi salienti, Machiavelli evidenzia come in essa si susseguano regimi autoritari che mirano a contenere con la forza l’ordine pubblico, altrimenti destinato ad esplodere in forme accentuate di conflittualità (7). Dall’altro, Lutero considera l’uomo come soggetto intrinsecamente corrotto (la cosiddetta corruptio naturae), che può salvarsi solo mediante il ricorso alla fede e alla grazia quali doni divini. Questo pessimismo antropologico impedisce (e non può che impedire) che ci si possa riferire alla “natura” come a fondamento dell’agire politico, e rendono pertanto del tutto impraticabile il ricorso alla “legge naturale”(8).
E’ dunque evidente, nella prospettiva propria della modernità, l’assoluta impossibilità di fondare la politica su un dato ontologico immutabile; ad avere in essa il sopravvento è la volontà decisionale – è ancora il Nominalismo a sottolinearlo – di chi ha autorità (Non veritas sed auctoritas facit legem). La questione della ricerca del fondamento non viene accantonata, ma  viene variamente declinata, avendo come riferimento il presupposto volontaristico cui si è accennato.  Già Machiavelli cui si è alluso sviluppa una teoria che fa capo a questa visione. Egli incentra la politica sulla figura del Principe al quale viene assegnato un potere assoluto, che deve esercitare con la forza del lione e con l’astuzia della volpe,avendo come criterio-guida la “ragion di Stato” (9).
Ma la vera alternativa è costituita dal passaggio dalla concezione “naturalistica” delineata a una concezione “contrattualista”, la quale fonda la politica su un “patto sociale”, che definisce le “regole” il cui rispetto consente lo sviluppo di una convivenza ordinata e pacifica. Il maggiore (e più radicale) rappresentante di questa svolta è Thomas Hobbes  il quale, partendo da una visione pessimistica dell’uomo, guidato nello “stato di natura” dall’istinto di autoconservazione e dall’ egoismo del desiderio, non può che concepire l’altro come ostacolo alla propria realizzazione, dunque come nemico (homo homini lupus) dando vita a una situazione di conflittualità permanente (bellum omnium contra omnes) con esiti distruttivi per tutti i cittadini.
La fuoriuscita da questa situazione non può allora essere ricercata che nella creazione di uno “stato artificiale” nel quale, mediante il consenso raggiunto attorno a regole comuni, che hanno bisogno per essere fatte rispettare da  un’autorità con un potere assoluto, il Leviathan, si rende possibile la vita sociale. Questa concezione del fondamento della politica, che è  all’origine del costituirsi degli Stati assoluti si intreccia, nella modernità, con il formarsi, grazie alle rivoluzioni americana e francese e all’illuminismo.. della teoria della democrazia liberale. Pur nella profonda diversità tra le  due concezioni segnalate, ad entrambe soggiace una visione dell’altro come estraneo o come fattore limitativo della propria possibilità di realizzazione. La stessa dottrina dei diritti umani, che ha in  John Locke il proprio padre fondatore non ha come base il riconoscimento di comuni valori che concorrano positivamente allo sviluppo delle relazioni, ma nasce dalla convergenza attorno a diritti fondamentali identificati mediante la contrattazione (8). D’altra parte, l’affermazione  spesso e da più parti indicata come un modello positivo di riferimento: “La mia libertà finisce dove ha inizio la libertà dell’altro” nasconde in realtà una visione negativa dell’altro come ostacolo al pieno esercizio della propria libertà, anziché come socio con cui collaborare per costruire progetti di vita comuni. La politica ha in questi casi il significato (e il compito)  di mantenere, anche con il ricorso alla forza, un ordine fondato sul rispetto reciproco dei diritti e delle regole comuni.

3. Per una fondazione “relazionale”
Sia il modello “naturalistico” tradizionale sia quello “contrattualista” della modernità risultano incapaci di fondare in termini costruttivi la politica come promozione di una  polis ordinata e pacifica, in cui tutti e ciascuno attingano la propria realizzazione. Nel primo caso – quello del modello “naturalistico” – la impraticabilità è legata a una fondazione anacronistica e statica, che non considera il dinamismo dei processi evolutivi della società e ignora la necessità di un modello caratterizzato da una maggiore duttilità e relatività. Nel secondo – quello del modello “contrattualista” (anche nella versione liberale) – il limite consiste in una visione negativa e riduttiva della politica chiamata a garantire l’ordine pubblico piuttosto che a promuovere il bene dell’intera cittadinanza.

  1. 1.   La relazione come dimensione costitutiva della persona

Il modello che va oltre i due precedenti e interpreta meglio lo statuto della politica in quanto arte della polis, è dunque il modello “relazionale”. A ben guardare dietro alla concezione “contrattualista” vi è una riduzione del soggetto umano a mero “individuo”, compiuto in sé stesso stesso, il quale concepisce di conseguenza l’altro – è questa la visione che ha avuto il sopravvento nella modernità –  come “esterno” (ed “estraneo”).  Il modello ”relazionale” ribalta questa visione, con la proposta di una immagine del soggetto come “persona”, cioè come essere costitutivamente relazionale (dunque sociale). Dire “persona” significa infatti riconoscere il soggetto umano come essere di e in relazione; significa considerare l’altro come realtà che ci appartiene non in senso possessivo ma nel senso dell’esigenza di farcene responsabili in quanto ad esso strettamente legati nella radice più profonda del nostro essere; significa, in ultima analisi, avere la chiara consapevolezza che non ci si  comprende e non ci si realizza se non in una rete di relazioni, che hanno inizio nel rapporto con le figure parentali e che viene man mano dilatandosi nel tempo e nello spazio fino al pieno inserimento nella società e all’acquisizione di una forma di “prossimità” universalistica che abilita a diventare cittadini del mondo. La conferma della bontà di questa visione viene del resto anche dalle principali correnti del pensiero filosofico contemporaneo – dall’esistenzialismo alla fenomenologia, dal personalismo  al pensiero ebraico – che, pur partendo da presupposti diversi, convergono nel riconoscere il soggetto umano come “soggetto relazionale”, e nello sviluppare la loro riflessione a partire da questo assunto.

  1. 2. Quale politica “relazionale”?

Nella concezione antropologica delineata la società assume un carattere del tutto positivo. Essa è vista come luogo privilegiato di crescita della persona, nel rispetto della sua individualità che non viene annullata ma promossa dal suo inserimento in un contesto relazionale. La persona è infatti nello stesso tempo “essere individuale” ed “essere relazionale”; è soggetto unico e irripetibile e – come si è già rilevato – è anche, nella sua costituzione originaria, soggetto aperto all’altro.
La domanda che, a questo punto, si pone come ineludibile è:  che cosa implica oggi il riconoscimento che la relazione costituisce il fondamento della politica? Quali orientamenti di fondo da tale fondamento derivano? Una risposta puntuale a queste domande viene anzitutto dalla filosofia politica di Paul Ricoeur,  il quale introduce, nell’ambito della teoria personalista cui aderisce, accanto al rapporto originario io-tu, il “terzo”, che non è un estraneo ma una persona con cui non entreremo mai in contatto diretto, ma delle cui condizioni dobbiamo sentirci responsabili, prendendoci cura dei suoi bisogni e dei suoi diritti attraverso l’esercizio dell’attività politica, la quale deve assumere, nell’ambito di una società globalizzata come l’attuale, connotati universalistici (10).
L’impegno politico viene in tal modo articolandosi secondo cerchi concentrici, nei quali “particolare” e “universale” non possono (e non devono) mai andare disgiunti; l’attenzione ai “prossimo” e al “socio” – è sempre RIcoeur a ricordarlo – deve costantemente intrecciarsi con l’attenzione al “terzo” cui si è accennato. L’interdipendenza tra i diversi settori della vita sociale e tra i diversi popoli della terra rende evidente questa necessità: il mondo è diventato un’unica famiglia, siamo cittadini di una polis mondiale. Questo non significa che etnie e popoli non debbano conservare la propria identità culturale e religiosa, evitando la caduta in forme di massificazione e di omologazione che mortificano la varietà dell’umano; significa capacità di dare sviluppo a una unità plurale e differenziata che, espressione della convergenza verso obiettivi comuni arricchiti dall’ incontro di diverse esperienze e sensibilità. Si comprende in questo contesto l’insistenza di papa Francesco nel mettere l’accento sulla “amicizia sociale” e sulla “fraternità universale”, indicando con la prima il rapporto di prossimità che riguarda le persone con cui si è direttamente a contatto, e con la seconda l’apertura all’intera famiglia umana da attuarsi nel segno della fraternità (11).
La virtù che presiede all’azione politica e che costituisce il metro in base al quale valutarne gli interventi è la virtù della giustizia. Le due formulazioni che di essa si sono date nella cultura occidentale, quella aristotelica iustitia est ad alterum e quella del diritto romano unicuique suum evidenziano due aspetti complementari che la qualificano: quello relazionale e quello più attento alle differenze soggettive: come è infatti ingiusto trattare in modo diverso situazioni uguali, così è ingiusto trattare in modo uguale situazioni diverse. E’ come dire che la giustizia deve saper coniugare in se stessa “personale” e “sociale” o deve, in altri termini, lasciarsi integrare – come rileva papa Giovanni XXIII nella Mater et magistra -- dalla “equità” (aequitas), la quale impedisce che si pervenga alla sua radicale oggettivazione, che la rende incapace di affrontare con corretto discernimento le diverse situazioni (Summum ius summa iniuria) (12).
Ma c’è di più.  Giustizia ed equità (o giustizia equa) sono da sole insufficienti a garantire che la politica si sviluppi sotto la forma di “amicizia” e di “fraternità” come suggerisce papa Francesco. Hanno bisogno di essere integrate da un habitus che l’uomo politico deve fare proprio se intende conferire al proprio impegno il carattere di servizio: la gratuità. Di primaria importanza è, a tale riguardo, il contributo di Emanuel Levinas il quale, considerando l’etica come “filosofia prima” e opponendosi alle filosofie dell’”essere” e dell’ “io”, che hanno caratterizzato rispettivamente il sistema classico e medioevale e quello della modernità, pone al centro del proprio sistema l’”altro” che ci interpella con il suo volto e del quale dobbiamo farci carico in maniera incondizionata, senza attesa di contropartita (12). Detto in termini ebraico-cristiani, ai quali peraltro Levinas non manca di fare riferimento, la vera giustizia sfocia nella carità la quale, lungi dall’alterarne l’identità, la consolida mettendola in grado di venire incontro alle esigenze di tutti e di ciascuno. La politica non può prescindere dall’adesione a questo binomio – giustizia-carità – se intende uscire dalle secche di una visione unilaterale che ne deforma la verità.

Una postilla è infine importante aggiungere. L’estrema gravità della situazione ecologica impone alla politica un’attenzione privilegiata nei confronti di essa.  Come ci ha giustamente ricordato papa Francesco nella Laudato si questione sociale e questione ecologica sono tra loro strettamente connesse e interdipendenti (13). E’ questa peraltro un’ulteriore conferma del tessuto relazionale proprio dell’intera realtà creata, che non si esaurisce dunque nelle relazioni interumane, ma coinvolge anche la natura in tutta la varietà delle sue espressioni. Una politica “relazionale” non può prescindere da questo impegno globale dal quale dipende la qualità della vita in quanto qualità dei rapporti dell’uomo con se stesso, con gli altri e con l’intero universo.

                                                                                                

Note

1) Aristotele, Politica (Tà politicà). Oltre ad “animale politico”, l’uomo è per lo Stagirita un  essere dotato di logos che gli consente il confronto con gli altri, e dunque la creazione delle regole che devono guidare l’attività sociale per realizzare una forma positiva di convivenza. Il che può avvenire soltanto aderendo alle virtù proposte nella Etica Nicomachea come concreti orientamenti della vita morale.
2) Per Tommaso D'Aquino la politica, che ha il suo fondamento nella “natura sociale” dell’uomo, uno dei fattori più rilevanti dell’antropologia della Summa Theologiae, è fatta soprattutto oggetto del Commento alla Politica di Aristotele, dove le virtù umane che la qualificano vengono inscritte in un quadro caratterizzato da finalità teologiche.
3) Il Nominalismo è una dottrina medioevale che affronta la questione degli “universali” opponendosi al “concettualismo”. Per tale dottrina il concetto non ha nessun riscontro nella realtà né fuori da essa. Guglielmo di Ochkam, che è l’esponente più importante di tale corrente di pensiero sostiene che il concetto è un “segno”, che serve per classificare a scopi pratici la realtà, ma che non ha nulla a che fare con la sua essenza.
4) Nicolo' Macchiavelli, Il Principe: si tratta di  un’opera altamente significativa, che appartiene al genere letterario dei trattati politici del 1500, e che mette in evidenza come il fallimento di molti Stati è legato al tentativo di porsi mete ideali irraggiungibili, che non tengono  conto della vera natura umana dominata dall’egoismo.
5) Le opere fondamentali per conoscere la concezione antropologica di MARTIN LUTERO sono i  Dictata super Psalterium (1513-1516) e le lezioni di Commento alla Lettera ai Romani (1515-1516).           
6) Nicolò Macchiavelli nel Principe si propone di fornire una visione “realistica” della politica, mettendo l’accento sulla necessità che venga gestita  da un sovrano assoluto che esercita il potere non disdegnando il ricorso alla violenza e alla menzogna.
7) Thomas Hobbes, Leviathan (1651).
8) John Locke, Due trattati sul governo (1690).
9) Paul Ricoeur, Sè come un altro,  Jaca Book, Milano 2016.  
10) Papa Francesco, Fratelli tutti (cfr. (soprattutto il sesto capitolo).
11) Giovanni XXIII, Mater et magistra, importante enciclica sull’ordine sociale (1962).
12) Emanuel Levinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Iaca Book. Milano 2016.
13) Papa Francesco, Laudato si, la prima enciclica papale totalmente dedicata alla questione ecologica.