di Enrico Di Pasquale, Fondazione Leone Moressa

L’espressione “Resilienza” descrive la capacità di resistere a un evento traumatico, adattandosi e modificando la propria condizione di partenza, ed è la parola chiave della ripresa economica post-pandemia, caratterizzata dagli investimenti europei del Next Generation EU. Nonostante le perduranti incertezze legate ai possibili riverberi della pandemia e agli effetti della guerra in Ucraina, gli investimenti previsti dovrebbero portare a un’Italia più competitiva e sostenibile.

Parallelamente, sarà interessante capire quali saranno gli effetti a livello sociale a medio termine. L’emergenza sanitaria ha sicuramente ampliato le disuguaglianze, mettendo in evidenza alcune fragilità latenti. Se, già nella precedente edizione del Rapporto, era stato evidenziato come gli immigrati fossero stati i primi a pagare gli effetti della pandemia sul piano occupazionale, a causa della maggiore precarietà, sarà interessante, ora, capire che ruolo avranno nel processo di ripresa e resilienza.
Il Rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione si concentra sull’analisi delle dinamiche sociali ed economiche legate all’immigrazione in Italia. Accanto all’analisi dei dati provenienti da fonti ufficiali (ad esempio, solo per citare le principali: ISTAT, Eurostat, OCSE, Ministero dell’Economia e Finanze, Banca d’Italia, Infocamere) sono presenti, come consuetudine, approfondimenti curati da esperti e rappresentanti istituzionali (per citarne alcuni: Commissione europea, Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, Ministero dell’Economia e Finanze, Ministero del Lavoro e Politiche Sociali, Confartigianato), utili a fornire spunti di riflessione e di interpretazione dei dati.

Dinamiche sociali e demografiche

La pandemia è intervenuta in un Paese in cui il cambiamento demografico era già fortemente avviato. Quello che i demografi chiamano “inverno demografico” è un mix di bassa natalità (ulteriormente aggravata), allungamento dell’aspettativa di vita – con il conseguente aumento della componente anziana, emigrazione di forza lavoro verso l’estero, tutti fenomeni interconnessi tra loro e che trovano radici nella storia italiana degli ultimi decenni.
Significativo, ad esempio, il saldo naturale (differenza tra nati e morti), negativo nel 2021 per oltre 300 mila unità. La presenza immigrata, che nei primi anni del millennio rappresentava una risorsa per bilanciare il calo demografico, ora non è più sufficiente. Negli ultimi anni, infatti, sono diminuiti i nuovi arrivi e si è ridotto il tasso di natalità anche tra gli stranieri.
Inoltre, negli ultimi anni è cambiata profondamente la composizione dei nuovi arrivi, con sempre meno arrivi “programmati” (ingressi per lavoro) e sempre più ingressi “non programmati”: iscrizioni anagrafiche di cittadini Ue, arrivi per motivi umanitari, ricongiungimenti familiari. Questo cambia anche la struttura della presenza straniera in Italia, ormai vicina al 9% della popolazione, con picchi superiori al 15% in molte grandi città del Centro-Nord.
Non va sottovalutata, inoltre, la presenza di oltre un milione di “nuovi italiani”, immigrati che – ormai radicati sul territorio – hanno acquisito la cittadinanza italiana.
La presenza immigrata in Italia, dunque, attualmente stabile a 5,2 milioni di residenti, aumenterebbe se contassimo anche gli “italiani di origine straniera” e gli immigrati irregolari, superando probabilmente il tetto dei 6 milioni. Dall’altra parte, tuttavia, la statistica considera “stranieri” i minori nati in Italia da genitori stranieri (quasi un milione), che debbono aspettare la maggiore età per poter richiedere la cittadinanza del Paese in cui sono nati e cresciuti.

Il mercato del lavoro

Dopo la crisi occupazionale avvenuta nel 2020 a seguito della pandemia (-3,1% nel numero di occupati in Italia), il 2021 ha visto registrare una lieve ripresa (+0,8%).
Nel 2020, i più colpiti dalla crisi sono stati i lavoratori precari, non protetti dal cosiddetto “blocco dei licenziamenti”. Le categorie più fragili del mercato del lavoro, in particolare le donne – e soprattutto le donne straniere – sono state le più colpite. Basti pensare che le donne straniere, che nel mercato del lavoro rappresentano il 4,2% degli occupati, hanno perso il 16,3% dei posti di lavoro scomparsi (724 mila), nel 2020, a causa della pandemia.
A oggi, il mercato del lavoro italiano appare fortemente segmentato, con alcuni settori o mansioni caratterizzati da una presenza massiccia di lavoratori (e lavoratrici) immigrati. Per dare un’idea, se, nel 2021, l’incidenza dei lavoratori stranieri è mediamente del 10% rispetto al totale degli occupati, si passa dal 2,2% tra le professioni qualificate e tecniche fino al 29,2% tra il personale non qualificato.
Guardando il dato da un’altra prospettiva, quasi un terzo dei lavoratori stranieri (31,7%) svolge una mansione come personale non qualificato, mentre tra gli italiani questa percentuale si limita all’8,5%. 
Questo pone l’attenzione su un altro tema, oltre a quello dell’immobilità sociale, ovvero lo “spreco” di talenti. È noto, infatti, che molti immigrati si trovano a svolgere lavori non qualificati pur essendo in possesso di titoli di studio e competenze. Questo fenomeno (“overeducation”), è più diffuso tra gli stranieri per una serie di fattori, tra cui: la carenza linguistica e la poca conoscenza del territorio, la necessità di avere un’occupazione per poter rinnovare il Permesso di soggiorno, la mancanza di una rete familiare che consente di rifiutare offerte di lavoro non inclini alle proprie competenze.
Merita invece un discorso a parte l’imprenditoria immigrata in Italia, che alla fine del 2021 conta 753 mila imprenditori nati all’estero (persone fisiche con cariche sociali in aziende attive in Italia) e 572 mila imprese a guida “straniera”.
Negli ultimi dieci anni, a fronte di un -8,6% degli imprenditori nati in Italia, i nati all’estero sono aumentati del +31,6%, arrivando a rappresentare un decimo degli imprenditori totali. 
Si tratta di un fenomeno con luci e ombre: se da un lato l’aumento dell’imprenditoria rappresenta la prosecuzione di un percorso di “integrazione” in Italia, è evidente che in molti casi le nuove imprese a conduzione straniera si collocano in segmenti del mercato a bassa produttività e basso valore, determinando una “sostituzione al ribasso” rispetto alle precedenti attività. La sfida per l’intero sistema nazionale, in questo caso, è quella di costruire sinergie e scambi tra imprese italiane e “straniere”, determinando una crescita reciproca e complessiva.

L’impatto fiscale

Anche se, negli ultimi anni, l’attenzione mediatica sull’immigrazione è leggermente calata, l’idea che gli immigrati rappresentino più un costo che una risorsa per le casse dello Stato è certamente ancora dominante nell’opinione pubblica.
I dati del Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF) sulle dichiarazioni dei redditi 2021 (a.i. 2020) consentono di analizzare il peso della componente immigrata sul totale dei contribuenti del nostro Paese e quantificare, di conseguenza, il contributo fiscale dell’immigrazione. 
Si tratta di 4,17 milioni di contribuenti nati all’estero, che hanno dichiarato 57,5 miliardi di euro di redditi e versato 8,2 miliardi di euro di Irpef. La serie storica evidenzia l’impatto dell’emergenza COVID-19: nel 2020, per la prima volta, diminuisce il numero dei contribuenti nati all’estero (-1,8%), così come diminuiscono il volume dei redditi dichiarati (-4,3%) e quello dell’Irpef versata (-8,5%). 
Tra i contribuenti nati all’estero, quasi la metà (48,7%) ha dichiarato un reddito annuo inferiore a 10 mila euro. Tra i nati in Italia, in quella classe di reddito si attesta solo il 29,5% dei contribuenti. Complessivamente, i contribuenti nati all’estero rappresentano il 10,1% del totale, con un’incidenza che oscilla tra il 3,3% nella fascia di reddito sopra i 50 mila euro e il 15,7% in quella sotto i 10 mila. 
Confrontando entrate e uscite per le casse pubbliche (tasse e contributi da un lato, servizi di welfare dall’altro), nel 2021 (anno d’imposta 2020) il saldo tra entrate e uscite è ulteriormente aumentato (+1,4 miliardi). Nonostante siano diminuiti i redditi dichiarati dai contribuenti nati all’estero e l’Irpef versata, è diminuita sensibilmente la spesa per l’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati, visto il netto calo delle richieste rispetto al periodo 2015-2017. 
I lavoratori immigrati regolari nel 2021 sono 2,26 milioni, pari al 10% del totale, mentre le persone accolte nei centri di accoglienza sono 78 mila (con un rapporto di circa 30 lavoratori immigrati per ogni migrante accolto). 
A determinare il saldo positivo è soprattutto la componente previdenziale e assistenziale: a fronte di 8,4 miliardi di uscite (pensioni, disoccupazione, ecc.), vi sono infatti 15,9 miliardi di entrate da contributi previdenziali e sociali. 
Tale saldo – è bene precisarlo – non tiene comunque conto del contributo (questo sì, ancora positivo) che la presenza immigrata fornisce alle dinamiche demografiche in corso e alle necessità del tessuto produttivo. L’inclusione sociale degli immigrati continuerà quindi a portare benefici a livello economico, garantendo forza lavoro, consumi e nuovi investimenti. 
Nel 2021 l’Italia ha registrato un aumento dei Permessi di Soggiorno e, in particolare, di quelli per lavoro, passati dai circa 10 mila del 2020 a oltre 50 mila. Anche in relazione ai Permessi totali, quelli per lavoro sono passati dal 9,7% al 18,5%. Sebbene la componente più consistente rimanga quella dei ricongiungimenti familiari, l’incremento degli ingressi per lavoro è un segnale importante rispetto alle esigenze dei settori produttivi. 
Infine, non si può non considerare l’impatto che la guerra in Ucraina avrà sul nostro Paese, da molti punti di vista. Innanzitutto l’accoglienza dei profughi e la possibile stabilizzazione sul territorio. L’Italia, contando su una presenza già significativa di cittadini ucraini (236 mila nel 2021, per quasi l’80% donne), è stata tra i Paesi più attivi nella prima fase di emergenza, con oltre 120 mila profughi accolti tra febbraio e maggio 2022. 
Se la prima fase è stata gestita soprattutto grazie all’impegno delle associazioni del terzo settore e dei cittadini ucraini in Italia, sarà necessario ripensare il sistema di accoglienza italiano, per evitare di rivivere le criticità sperimentate tra il 2016 e il 2017. Occorre, quindi, pensare al “dopo-accoglienza”, delineando percorsi di inserimento sociale e inclusione ed, eventualmente e auspicabilmente, rientro in patria. 
Una delle sfide per l’Italia, dunque, sarà quella di far sì che la ripresa sia inclusiva, diminuendo le disuguaglianze (legate alla cittadinanza, ma anche al genere, all’età, alla condizione fisica) anziché ampliarle. In questo modo, l’Europa della prossima generazione (Next Generation EU) sarà davvero più sostenibile e accogliente.