di Roberto Mancini   

Il cristiano di fronte al male nella storia o meglio dentro il male. Riprendendo Bonhoeffer, che considera l’incarnazione come legge della storia, il cristiano sa che qualsiasi azione compia rimane nel peccato. Nella storia non si pone l’alternativa astratta tra il Bene assoluto e il Male assoluto. Qualsiasi azione facciamo per compiere il bene si rimane nella situazione di peccato: comporta assumere il rischio della scelta personale nella situazione concreta con la fede nella misericordia di Cristo che ha preso su di sé il peccato e lo ha vinto. Compiere un’azione che si ritiene necessaria per raggiungere un bene, come uccidere il tiranno o partecipare alla guerra per la libertà del proprio popolo, è quindi contemporaneamente bene e male, giusto e peccato. Se è così, è una contraddizione interna alla coscienza personale del cristiano ma ha anche significati per la Chiesa e per l’etica umana collettiva?

L’indicazione di Bonhoeffer va vista nella giusta luce.

Ci ricorda che non siamo arbitri del bene e del male e che la misura di entrambi non si origina nella nostra valutazione. Semmai dobbiamo esercitare la coscienza critica che ogni volta deve discernere che cosa sia bene e che cosa male. Soprattutto è falso che noi restiamo comunque e sempre nello stato di peccato. Tutta la dottrina del peccato originale ci ha convinti che siamo più figli del male che figli di Dio. In realtà la disponibilità al male è indice di disumanizzazione, mentre man mano che ci umanizziamo scopriamo la libertà delle figlie e dei figli di Dio, che è precisamente la libertà dal male. Abbiamo una dignità filiale, proveniente dall’amore di Dio, che è maggiore del peccato. Quindi si tratta di aprire le strade per servire la giustizia e il bene concreto, imparando ogni volta a trovare il modo per non ristabilire la complicità con il male.


Esistono criteri per il discernimento in modo da evitare i pericoli di aderire al male preso come necessario al bene (appunto la guerra ma anche ad es. il fascismo considerato “provvidenziale” alla Chiesa) o di subire passivamente (stare a guardare)? Il dibattito, anche tra cattolici è astratto, sui principi: liceità della legittima difesa o no, sui valori assoluti in contrasto (come Mancuso e altri: il valore della libertà vale di più di quello della vita, mettendo assieme suicidio assistito e legittima difesa, piano individuale e collettivo). Ma esistono valori “assoluti” nella storia, sciolti cioè dai legame tra loro e dalle relazioni con le concrete situazioni storiche, con la complessità degli interessi e dei poteri in gioco? Si devono cercare dei criteri utili nella concretezza per rendere componibili i valori e per la migliore soluzione possibile con il minor danno possibile, con attenzione alle vittime? Non occorre cercare le possibili azioni di prevenzione del male?

I criteri per il discernimento rimandano anzitutto a quei valori viventi che sono le persone e tutte le creature, cosicché l’adesione a ogni valore ideale (verità, giustizia, libertà, ecc.) va valutata per la sua capacità di rendere servizio ai valori viventi. Ancor più in profondità il criterio è dato per i cristiani dalla qualità dell’amore di Gesù e dalla rivelazione della croce. La croce rivela un amore indistruttibile, nonviolento, generativo, il contrario esatto dei correnti criteri della giustizia secondo il “merito” e la “retribuzione” (davvero retributiva è solo la vendetta) e della cosiddetta “guerra giusta”. Per i cristiani non esiste guerra giusta, esistono semmai resistenza nonviolenta, azione che assume la pace come metodo quotidiano (e non solo come meta finale), passione per il bene comune senza esclusione di nessuno. Le posizioni di molti intellettuali che si sono espressi in questo periodo sul dovere di mandare armi in Ucraina (particolarmente esemplare in senso negativo è stata a mio avviso la posizione di Luigi Manconi) sono fortemente miopi, pigre e conformiste. Chi valuta e agisce nella luce del Vangelo sa che il primo criterio è la croce, da intendere però non più come sacrificio o momento di “rimbalzo” verso la vittoria finale, bensì come espressione di un amore incondizionato che sa vincere la violenza, l’odio e la stupidità. Le difficoltà a tradurre un criterio simile nella vita della società sembrano insormontabili, ma tutto assume un aspetto diverso se si mettono in campo le dinamiche della prevenzione, dell’educazione, della coltivazione della giustizia tra i popoli. È molto ipocrita assistere alla coltivazione della guerra e dell’iniquità per poi dire, quando esplode un conflitto, che la guerra è giusta e necessaria.


Se è vero che è illusorio pensare possibile la vittoria in tempi brevi degli istinti collettivi alla violenza e alla crudeltà dell’umanità, la rassegnazione è l’unica soluzione? Non c’è una grave responsabilità in particolare delle comunità cristiane e del Magistero della Chiesa per aver agito in senso contrario trascurando totalmente l’educazione a essere operatori di pace?

È evidente che la rassegnazione è una condizione di morte spirituale che lascia campo libero a dinamiche di morte. La responsabilità della cristianità europea, nelle sue forme prevalenti, è quella anzitutto di aver piegato il Vangelo alla mentalità del potere, dell’esclusione, del dualismo, della presunzione di superiorità, della ricchezza. Poi è quella di aver rimosso la rivelazione della filialità universale rispetto a Dio, infine è quella di aver sempre preso posizione di conservazione e giustificazione del sistema di potere esistente (politico, economico, ideologico), arrivando ad assecondare le peggiori manifestazioni del versante oscuro della storia europea (crociate, inquisizione, sessismo, colonialismo, razzismo, fascismo, capitalismo). Occorre prendere sul serio le Beatitudini evangeliche e assumerle come criteri operativi della vita della Chiesa.


La dimensione escatologica con cui il cristiano vive nella storia relativizza quindi i valori. In questa ottica non si può mai pensare a uno “scontro di civiltà”, tra due mondi incarnazione del Bene e del Male, ma si deve fare attenzione critica al male che è presente prima di tutto in se stesso e nella propria “parte” e puntare sul bene esistente nel “nemico”, che non è mai un mondo monolitico. Non è questa una posizione realistica che viene propria dalla dimensione escatologica che evita i modi fideistici e ideologici, ma indica la necessità dell’analisi delle situazioni?

Credo che il respiro escatologico della fede possa essere vissuto non al modo del rinvio all’aldilà, ma al modo dell’anticipazione responsabile, che apre qui e ora spazi di fraternità e di sororità, con la giustizia che conviene a questa condizione di fratelli e sorelle. I cristiani dovrebbero mettere da parte lo schema che divide buoni e cattivi, per esercitare invece il discernimento della differenza oggettiva tra bene (che fa fiorire i viventi) e male (che tutto distrugge e avvelena). Perciò sono importanti, con le analisi delle situazioni, la memoria del Vangelo e lo sviluppo del pensiero critico. La povertà di Spirito indica nel Vangelo la scelta di vivere in spirito di condivisione e non coincide affatto con la povertà di pensiero. È essenziale sviluppare il pensiero come crescita della coscienza collettiva, esercizio di discernimento, lettura del mondo, forza euristica che trova strade lì dove tutti direbbero che c’è solo un muro. Infine, il respiro escatologico della fede che si ricorda della salvezza definitiva deve portare a prendersi cura delle esperienze di salvezza da vivere ora: la salvezza fisica, come sollecitudine verso la salute e i bisogni delle persone; la salvezza interiore, come preservazione dell’integrità della coscienza; la salvezza esistenziale, come attenzione a evitare che nessuna esista invano e senza frutto di amore per altri; la salvezza etica, come azione solidale e sollecita per togliere dal pericolo chi è esposto a un male che lo potrebbe travolgere; la salvezza storico-politica per promuovere azioni collettive che spezzino l’attuale sistema di autodistruzione che (per effetto dell’intreccio perverso tra capitalismo globale, nazionalismi e imperialismi) sta mettendo a repentaglio la sorte del mondo.