di Italo De Sandre     

Non so se sia utile affrontare oggi i problemi posti così complessi partendo da una riflessione nobilissima che ha come lemma centrale il peccato (punto 1 domande ). In un convegno di BIBLIA sul MALE di molti anni fa, ricordo bene un'espressione di Salvatore Natoli di cui cito il "senso per me": se pensate al male, non occorre che andiate a scomodare Dio, pensate al male agito e subìto dagli uomini… Dopo aver seguito lo sviluppo del "pensiero complesso" e per quanto possibile i fondamenti delle neuroscienze, di quell’idea sono ancora del tutto convinto. 

Occupandomi di diverse tematiche sociologiche focalizzate sulla vita quotidiana, a proposito di "male" ho incrociato le ricerche psicoanalitiche di Melanie Klein sui bambini. Klein ha messo a fuoco alcuni meccanismi psichici di base, che sono orientamenti di fondo di cui ognuno fa esperienza. Un orientamento schizo-paranoideo (traduco in aggressivo-distruttivo), con cui il soggetto separa il proprio mondo di vita personale-sociale in due, di qua l’io oggetto totale d’amore, di là l’altro, oggetto totale di odio, da distruggere (Fornari sintetizzava: mors tua vita mea); un orientamento opposto, depressivo, per cui il soggetto sacrifica/dona la propria vita-morte perché l’altro viva (mors mea vita tua), e un terzo orientamento, riparativo, della mamma con il bambino di cui accetta pregi e difetti, riconosce i propri, si fa carico delle tensioni con il bambino in modo che anche lui impari a responsabilizzarsi (mors tua mors mea, vita tua vita mea). Non so quanto siamo stati educati a vivere la riparatività per essere empatici e costruttivi nei momenti conflittuali. In famiglia, a scuola, nella chiesa. 
Da un punto di vista invece macro-sociale, filosofi e politologi hanno messo in luce il valore della rete di energie relazionali con cui vive ogni società, alimentate dalla fiducia che rende possibili e generative quelle relazioni, mettendo a fuoco quello che da allora è stato definito "capitale sociale". Robert D. Putnam ha proposto una distinzione significativa tra un capitale sociale bonding, in cui al cuore della propria comunità sono posti i legami interni, valorizzando l’importanza della tutela dei propri confini, chiusi agli estranei/stranieri (il politologo aveva fatto una delle sue ricerche proprio nel centro Italia!), e invece il capitale sociale bridging, che interagisce positivamente con l’esterno aprendosi, costruendo ponti, scambi e legami con i sistemi sociali esterni. Queste distinzioni come si capisce niente affatto astratte, richiamano correnti culturali, politiche e religiose ben evidenti nelle nostre società, così indurite negli ultimi anni. In più, in molti casi oggi si costruiscono ponti ma per "comprare" le strutture di società più povere, o per vendere persone e popolazioni che migrano. 

Prospettive diverse ma che parlano dell’esperienza relazionale concreta in cui ogni soggetto, ogni comunità, fa delle scelte, alcune chiaramente distruttive, di persone, di relazioni e di cose, secondo convinzioni e responsabilità. Scelte fatte o evitate con diverse possibilità e capacità, con una "razionalità limitata", un intreccio inscindibile tra emozioni e ragioni non sempre consapevole. Come si riesce a conoscerle e "comprenderle"? Qualsiasi considerazione di azioni tanto più se conflittuali e distruttive a mio avviso deve avere a cuore il punto 4 domande: analizzare le situazioni seriamente, tenendo ben presente la criticità della diversa condizione di chi vive dentro e subisce una dinamica distruttiva e chi ne è esterno, per i legami di emozioni e ragioni assai diversi negli uni e negli altri, e per la diversa possibilità di produrre documenti validi e attendibili. Noi nella maggioranza delle situazioni critiche guardiamo dall’esterno quelle azioni, con i limiti che sorgono in qualsiasi osservazione, in cui sono necessarie prove di validità (che le testimonianze corrispondano alla realtà/verità) e di attendibilità (che altri possano ripetere l’osservazione ottenendo risultati simili). Ben diverso è quando uno/a vive da dentro conflitti e distruzioni, se sceglie (Klein) di agire sacrificando se stesso per salvare i suoi, o al contrario facendo il possibile per essere lui a distruggere chi lo sta distruggendo; o quanto sia in condizione di fare un percorso riparativo, con la forza di riflettere su quanto sta vivendo cercando spiragli di incontro, facendosi carico in misura ragionevole anche delle possibili "buone ragioni" degli altri (Boudon).

Questi diversi stili di conoscenza implicano in sé diversi stili di comunicazione, relazioni di riconoscimento o di disprezzo, dia-loghi o monologhi. Vediamo in questa guerra anche religiosa quanto importanti siano le comunicazioni e relazioni di potere tra i soggetti in conflitto. Per questo di comunicazione bisognerebbe parlare sin dall’inizio. Non come semplice trasmissione di messaggi ma come condivisione o conflitto di codici simbolici: oggi che cos’è verità, che cos’è diritto, che cos’è religione, e via via. Anche le foto ricevono interpretazioni opposte. Il problema dei valori (punti 2 e 3 domande ) vive di queste dinamiche. 
Habermas già anni fa ha parlato di agire comunicativo che può vivere (e morire) di monologhi, o crescere in dia-logo, in continue interazioni discorsive e relazionali seriamente finalizzate a intese, per condividere un’etica pubblica (che ha senso e vale per e con tutti) capace di crescere reinterpretando i segni dei propri tempi. Il cristianesimo si è costruito nella storia come una istituzione-organizzazione molto umana, che per lunghi periodi e in molte correnti ha ritenuto di definirsi con una dottrina unica e definitiva, auto-sacralizzata. Però (per regalo) ha un suo fondamento simbolico-comunicativo extra-ordinario: un Maestro che non ha scritto un libro ma ha parlato in parabole, da interpretare, da attualizzare in un cammino comune, che continua sempre.