di Maurizio Ambrosini   

La solidarietà con  i migranti e i richiedenti asilo, quando si tratta di aiutarli a passare il confine, o a trovare cibo e riparo una volta entrati sul territorio nazionale, può entrare in contrasto con l’inasprimento dei controlli di frontiera e della lotta contro l’immigrazione non autorizzata. Il contrasto tra le logiche divergenti della solidarietà e della sovranità si è tradotto negli ultimi anni in una serie di azioni giudiziarie. Apparati di sicurezza e zelanti magistrati hanno perseguito, in Italia e altrove, non solo il business del favoreggiamento dell’immigrazione irregolare dietro compenso, ma anche singoli e gruppi impegnati in attività umanitarie.

Si parla a livello internazionale di “delitto di solidarietà”, e ne abbiamo degli esempi anche in Italia. Basti pensare alle diverse inchieste giudiziarie contro le ONG impegnate nei salvataggi in mare, all’arresto di Carola Rackete, ai processi contro i volontari di Linea d’Ombra di Trieste, Gian Andrea Franchi e Lorena Fornasir,  impegnati nel soccorso di chi arriva in città dalla rotta balcanica, al recente processo contro Andrea Costa e i volontari-attivisti di Baobab a Roma.

Si può convenire su un aspetto: se si sacralizzano i confini, ogni azione che contribuisce a trasgredirli, o consente di rispondere ai bisogni essenziali di chi li ha varcati senza permesso, può essere vista come un crimine contro la concezione assolutizzata della sovranità nazionale.
Salvare migranti e richiedenti asilo è diventato pertanto per un certo periodo un attacco alla sicurezza e alla sovranità nazionale, mentre chi ha chiuso i porti e tenuto persone inermi bloccate a bordo delle navi per giorni, minorenni compresi, si è presentato come difensore della patria. Stiamo assistendo a una pericolosa politicizzazione della solidarietà. Che ha come logica conseguenza gli striscioni appesi in più occasioni da estremisti di destra di fronte a sedi della Caritas per attaccarne polemicamente l’impegno nell’accoglienza. A quanto pare servire pasti caldi, organizzare corsi di italiano, mettere a disposizione docce e posti letto appaiono gesti eversivi o quanto meno forme di disobbedienza politica.

Per fortuna però sul piano culturale l’accoglienza verso i profughi ucraini ha mostrato che è possibile accogliere più di 100.000 persone in due mesi senza che il paese vada in crisi. Sul piano giudiziario diverse sentenze della magistratura stanno smontando l’architettura sovranista che per alcuni anni ha dominato la politica italiana, la produzione mediatica di maggiore impatto, la visione della maggior parte della popolazione. Sembra che, sia pure lentamente e non senza sussulti e contraddizioni, stia rifluendo l’ondata allarmistica e paranoide che aveva caratterizzato il dibattito sull’immigrazione negli scorsi anni, coinvolgendo anche settori della magistratura inquirente e apparati dello Stato.

Di fatto i vari procedimenti giudiziari aperti contro persone e ONG impegnate in azioni di salvataggio e assistenza verso immigrati e rifugiati hanno avuto come esito sentenze di assoluzione, smentendo i teoremi degli inquirenti. Basti ricordare le esternazioni del procuratore di Catania, Zuccaro, sull’asserita complicità tra ONG e trafficanti, da cui discendevano gli interrogatori di membri dell’equipaggio e migranti tratti in salvo, o le ispezioni che avevano sollevato accuse sullo smaltimento dei rifiuti o sul numero delle persone ospitate a bordo. Nel caso di Baobab gli inquirenti avevano formulato addirittura l’accusa di associazione per delinquere, impegnandosi in lunghe indagini e facendo ricorso anche alle intercettazioni telefoniche: come nelle inchieste contro la criminalità organizzata. Ripristinato il diritto di soccorrere, ci si dovrebbe domandare se le risorse investite per perseguire Baobab non potessero essere impiegate per indagare su altri e ben più gravi reati. Le risorse della giustizia sono endemicamente scarse, quindi personale e mezzi sono stati distolti da altri obiettivi per essere dirottati sull’improbabile minaccia rappresentata da volontari che accoglievano persone in transito a Roma e le aiutavano a comperare un biglietto di pullman per proseguire il loro viaggio. Tutto questo senza trarne vantaggi,  anzi pagando di tasca loro per fornire aiuto.
In realtà, il fatto che questi procedimenti siano stati avviati intendeva prima di tutto esprimere un messaggio politico e morale:  segnalare il disvalore di queste azioni, stigmatizzarle agli occhi dell’opinione pubblica, ostacolarne la continuazione e riproduzione. E nello stesso tempo intimidire e scoraggiare i protagonisti. Non senza effetto, almeno laddove le risorse impiegate sono importanti e il loro blocco, anche temporaneo, comporta danni ingenti. Basti pensare a come le ripetute inchieste contro i salvataggi in mare, le lunghe e minuziose ispezioni a bordo, i sequestri delle imbarcazioni, abbiano ottenuto l’effetto di allontanare per mesi le navi delle ONG dal canale di Sicilia, e dispieghino tuttora effetti di limitazione degli interventi in mare.

Avremmo bisogno di fissare un punto, solennemente affermato dalla Corte Costituzionale francese in una storica sentenza del luglio 2018, quando ha scagionato il contadino-attivista Cédric Herrou che accoglieva i migranti discesi dalle Alpi: il principio di fraternità, posto sullo stesso piano di quelli di libertà e di uguaglianza, vieta di criminalizzare la solidarietà con i migranti, quale che sia il loro status giuridico. Fornire aiuto su basi umanitarie è una scelta che lo Stato non può perseguire.