di Simone Morandini 

La sostenibilità è diventata elemento qualificante del linguaggio della politica internazionale a partire dal rapporto presentato da Gro Bruntland alle Nazioni Unite nel 1987. Essa fa riferimento a una forma socioeconomica che consenta di soddisfare i bisogni della generazione presente senza pregiudicare analoga possibilità per quelle future. Si tratta di una prospettiva ormai spesso citata, ma che potrebbe anche essere interpretata in forma minimale e autoreferenziale, come un mero tentativo di prolungare il presente, garantendo a esso (e a noi e a chi con noi lo condivide) la possibilità di durare per un tempo lungo.

L’interrogativo verterebbe allora soprattutto sulle condizioni che meglio garantiscano continuità e durevolezza a questa nostra forma di vita (con tutte le sue contraddizioni e con l’iniquità che la caratterizza). Non è certo questa la prospettiva disegnata da coloro che più attentamente hanno volto lo sguardo il cammino dell’umanità presente[1]; è invece però - purtroppo - quella che spesso si è imposta nelle pratiche di molti soggetti economici in questi decenni.
E tuttavia essa non regge: con un ossimoro potremmo dire che tale comprensione della sostenibilità è del tutto insostenibile.

1. Leggere i segni, per ricercare la rotta
Gli ultimi anni hanno, infatti, reso sempre più chiaro che anche chi volesse limitarsi a tale obiettivo minimale, dovrebbe in realtà comunque introdurre - e presto - forti elementi di discontinuità, rispetto al presente. Dovrebbe cioè discostarsi significativamente da una traiettoria che al momento ci vede viaggiare velocemente verso esiti infausti (quella che è stata definita una distruttiva “tempesta perfetta”). Quello che abitiamo non è cioè un presente che possa avere un futuro di lunga durata; quello che stiamo percorrendo non è un cammino che possa proseguire a lungo. Certo, l’accelerazione della storia umana indotta dalla tecnica è quasi abbagliante, ma essa non può cancellare la percezione dei rischi che essa porta con sé, nella sua discrasia rispetto alla gradualità lenta dei ritmi della biologia e dell’evoluzione ecosistemica. È quanto sottolineavo, ad esempio, nel mio recente Cambiare rotta[2], in cui tentavo di delineare una prospettiva etica - e teologica - per abitare questo tempo.
I segnali sono forti: dalla tempesta Vaia alla crescita delle acque alte a Venezia, agli incendi che devastano tante aree del pianeta (dall’Alaska e la Siberia fino all’Australia e al Brasile), allo stesso aumento in frequenza e intensità di zoonosi come il Covid 19 (per fortuna l’unico al momento ad aver raggiunto lo status di pandemia). Certo, la tentazione è quella di leggere tali fenomeni separatamente, come fossero eventi drammatici, ma isolati e relativamente occasionali; uno sguardo più attento però dovrà piuttosto interpretarli come avvisaglie, segni anticipatori di un degrado ambientale che è purtroppo solo all’inizio.
Tale attenzione non può però restare solo patrimonio di pochi addetti ai lavori: già il Concilio Vaticano II nella Costituzione Gaudium et Spes sulla chiesa nel mondo contemporaneo invitava a una puntuale lettura dei segni dei tempi quale condizione necessaria per delineare pratiche e forme di pensiero davvero all’altezza dell’umana vocazione (nn. 4; 1). Ogni epoca è cioè chiamata a considerare attentamente gli scenari che si trova ad abitare, per comprendere cosa sia giusto nel proprio tempo, quali comportamenti siano all’altezza della nostra umanità; per comprendere, dunque, anche come vada disegnata la rotta quando condizioni mutate impongano di abbandonare quella che in precedenza poteva sembrare affidabile. Rispetto allo sguardo indicato dai padri conciliari, il fatto nuovo è che i segni cui volgere il nostro sguardo interpretante includono anche il tempo meteorologico e l’intero mondo naturale, quale ambito che viene esso stesso a essere influenzato dall’umano agire. Non si tratta certo - sia chiaro - di modellare i nostri comportamenti su supposte leggi naturali cui esso dovrebbe sottostare, ma al contrario di comprendere che proprio quella creatività che caratterizza la nostra specie deve responsabilmente misurarsi anche con i vincoli che ci vengono dalla finitezza - la nostra e quella della terra.

2. Nell’Antropocene
Perché i tanti segnali che abbiamo citato qualificano questo tempo come fase avanzata di quello che Nobel per la Chimica Paul Crutzen ci ha insegnato a chiamare Antropocene - l’era in cui l’umanità è ormai il principale fattore determinante per le dinamiche biologiche e geologiche del pianeta[3]. Se, infatti, fin dal suo sorgere l’umanità ha modulato significativamente - con la propria presenza di specie culturale - l’evoluzione lenta dell’ecosistema planetario, è tuttavia innegabile che tale dinamica ha assunto proporzioni assolutamente inedite con quella “Grande Accelerazione” che ha avuto inizio nella seconda metà del ‘900[4]. Da allora la Terra diviene sempre più un “pianeta umano”, non perché divengano meno feroci le crude dinamiche dell’evoluzione, ma piuttosto perché l’uso delle risorse terrestri da parte della nostra specie diviene sempre più sistematico ed esteso, approfondendo l’impronta umana sul pianeta stesso.
Si pensi al clima che - con buona pace dei vari negazionisti - sta realmente cambiando, e velocemente, con effetti che trasformano realmente gli ecosistemi del pianeta, il sistema sociale e quello economico - e continueranno a farlo per decenni. La concentrazione di CO2 in atmosfera è passata dalle 280 parti per milione (ppm) dell’era preindustriale alle oltre 400 attuali: perché stupirsi se essa esercita l’effetto climalterante già previsto ai primi del ‘900[5]? Ci vorrebbe uno scetticismo pervicace - paragonabile al terrapiattismo - per ignorare i tanti segnali del cambiamento in atto, considerando eventi solo occasionali quelli che appaiono invece chiara espressione di trend direzionali. E, come notavamo, il clima è solo una delle dimensioni dell’impatto umano sul pianeta.
Diverse certo le matrici culturali che hanno contribuito a tale dinamica, e nel già citato Cambiare rotta abbiamo cercato di proporne una disamina appena più articolata; qui ci limitiamo a sottolineare la necessità di superare tale nefasta convergenza di fattori differenti, per ricercare un paradigma etico e antropologico diverso, profondamente diverso. Non può essere, d’altra parte, una ricerca che interessi esclusivamente una riflessione culturale di lungo periodo: c’è una drammatica esigenza di cambiare rotta e di farlo con urgenza, prima che il degrado sia troppo ampio e irreversibile. Ora titolava significativamente la sua opera l’astrofisico Aurélien Barrau, dedicandola a quella che egli indica come la più grande sfida della storia dell’umanità[6]. E analoga la sottolineatura di papa Francesco nella lucida profezia espressa nell’Enciclica Laudato Si’[7]: occorre intraprendere un radicale e tempestivo cammino di conversione ecologica, che interessi le esistenze personali e comunitarie, le forme in cui utilizziamo la tecnica, ma soprattutto l’organizzazione dell’economia. Si tratta di un’esigenza condivisa da diverse realtà culturali e religiose e anzi - come sottolineava una recente pubblicazione dell’Istituto di Studi Ecumenici “San Bernardino” di Venezia[8] - di un oggetto di dialogo morale di estrema rilevanza.
Occorre dunque un lavoro culturale urgente, ad ampio raggio, e assieme una riforma delle pratiche: è tempo di passare da un paradigma centrato sul consumo, quale motore della dinamica economica, a uno che pone al centro la soddisfazione dei bisogni umani e la tutela della Terra. La Grande Accelerazione della seconda metà del ‘900 è in buona parte il frutto della diffusione su scala globale - a partire dagli USA e quindi dall’Europa - di un modello economico in cui il consumo è stato sostenuto non per la sua finalizzazione alla vita e alla sua qualità, ma in vista della sola crescita. Sarebbe difficile negare i benefici che esso ha apportato nell’ultimo mezzo secolo alle esistenze di una parte della famiglia umana; al contempo, però, sarebbe inaccettabile mancare di percepire il dramma in cui esso rischia di tradursi per un’umanità che sta finalmente scoprendo cosa significhi abitare su un pianeta finito nelle sue risorse, prima ancora che nelle sue dimensioni[9].
Non è certo casuale che le Nazioni Unite abbiano qualificato come Obiettivi di Sviluppo Sostenibile i target indicati alla comunità internazionale per il periodo 2015-2030[10]. È tempo di cambiare; tempo di ridefinire gli obiettivi di una traiettoria e i modi per perseguirli.

3. La paura non basta
Si tratta di un passaggio necessario, di una necessità storica eppure - come ogni passaggio - esso comporta timori: chi farà il primo passo? chi si assumerà l'onere di sperimentare scelte delicate e impegnative? Questa seconda fase della pandemia da Covid 19 ci sta mostrando quanto facile sia cedere alla tentazione di far prevalere gli interessi particolari di breve periodo su una lungimirante cura del bene comune, anche in condizioni di emergenza condivisa. Forse alcuni segnali importanti - se leggiamo i segni dei tempi con uno sguardo modulato dalla speranza - possono venirci dall’inedito livello di attenzione dedicato dall’Unione Europea al New Green Deal, così come dalle intenzioni espresse dalla nuova amministrazione americana. Forse si delinea un nuovo clima anche in relazione al clima e alle sfide ambientali; forse è possibile pensare di recuperare il tempo perduto in questi ultimi anni. Certo, non giova in tal senso l’attuale condizione pandemica che se da un lato ha spezzato la fissazione unilaterale sul business as usual, costringe dall’altro a concentrarsi su necessità di breve periodo, rendendo più difficile mantenere al contempo quell’istanza lungimirante di cambiamento di cui abbiamo bisogno.
Come raccogliere allora una positiva convergenza di energie e risorse su un obiettivo che certo costringe a guardare a una scala temporale davvero lunga? E ancora, come modularne l’impatto sociale? Se il 2021 vedrà lo svolgimento della prossima Settimana Sociale dei cattolici italiani, destinata a riflettere su “Il pianeta che sogniamo”, con uno sguardo che tenga assieme lavoro e ambiente, non è casuale che la parola chiave che caratterizza l’Instrumentum laboris sia “transizione giusta”: la sostenibilità non può essere costruita a scapito dei soggetti più fragili, trascurando l’impatto che il cambiamento ha sulle loro esistenze. Lo stesso testo si sforza d’altra parte di delineare alcune caratteristiche etiche necessarie a supportare tale prospettiva, dandole corpo e gambe perché essa possa aiutarci a custodire futuro. Emergono così parole come lungimiranza, coraggio, creatività, attenzione per la fragilità e per le generazioni future, visione, etica civile. Sono temi sui quali da tempo riflette la padovana Fondazione Lanza (Centro Studi in Etica), ricercando categorie e prospettive per ritessere le prospettive di una riflessione etica capace di supportare la ricerca morale della famiglia umana in questo tempo così critico[11].
Il dato più chiaro è che non può essere soltanto la paura e la percezione del negativo a muovere a comportamenti inediti. Certo, la paura è un potente fattore motivazionale, ma - se non adeguatamente modulata da altri elementi - porta al ripiegamento su se stessi, a una centratura egocentrica, che certo non può bastare a garantire un agire per il bene comune. Occorrerà, invece, far interagire la preoccupazione per un futuro minacciato con la percezione di una realtà ricca di bontà e bellezza, che merita di essere custodita; con un senso di giustizia e di indignazione per le violazioni dei diritti umani che il degrado porta con sé. Dobbiamo apprendere ad amare il futuro possibile della famiglia umana, ad appassionarci per le potenzialità di vita di qualità che esso può portare con sé, se solo lasciamo loro la possibilità di fiorire.
La speranza diviene allora virtù qualificante in ordine alla costruzione della sostenibilità, come sguardo capace di misurarsi con lucidità con la dimensione minacciosa del futuro, senza cedere però alla tentazione di considerarla insuperabile. Costruirla diviene una sfida etica ed educativa, ma anche comunicativa: come diffondere segnali di resistenza e di resilienza per un tempo così critico? Forse proprio in questo spazio si colloca il contributo specifico che la riflessione religiosa e specificamente teologica può offrire a questa ricerca: far memoria del Dio che tutto sostiene nelle sue mani, che accompagna il cammino dell’umanità anche nelle sue fasi più delicate significa certo sottrarci al delirio dell’onnipotenza, ma anche strapparci al demone della disperazione. Un passaggio tanto più necessario in una fase in cui anche menti lucide rischiano di deporre il coraggio del cambiamento, concentrandosi - con un apparente realismo che rischia però di assumere connotazioni ciniche - su obiettivi più limitati[12].
Confidare in Dio significa, dunque, ricordare che neppure l’Antropocene è abbandonato a se stesso; che anche in questa fase delicata possiamo confidare nelle capacità di novità che la specie umana porta con sé. Non siamo condannati a ripetere il peggio del nostro passato: la nostra storia è gravida di novità, se solo sappiamo mettere al suo servizio - donne e uomini - risorse di senso e capacità operative. Il cambiamento di rotta non sarà allora solo il tentativo di evitare la tempesta all’ultimo istante, ma la positiva ricerca di un nuovo modo di essere umani, un esodo verso un’alleanza con la terra da cui possano germogliare giustizia e pace.  

Note

[1] Sul dibattito S.Morandini (a cura), Per la sostenibilità. Etica ambientale ed antropologia, Gregoriana, Padova 2008; S.Morandini, Abitare la terra custodirne i beni, Proget, Padova 2012.
[2] S. Morandini, Cambiare rotta. Il futuro nell’Antropocene, EDB, Bologna 2020.
[3] P.J. Crutzen, Benvenuti nell’Antropocene. L’uomo ha cambiato il clima, la Terra entra in una nuova era, Mondadori, Milano 2005.
[4] S.L. Lewis, M.A. Maslin, Il pianeta umano. Come abbiamo creato l’Antropocene, Einaudi 2019; J. McNeill, P. Engelke, La grande accelerazione, Einaudi, Torino 2019; W. Steffen et alii, The Trajectory of the Anthropocene: The Great Acceleration, in The Anthropocene Review 2 (2015), n.1, pp.81-98, https://doi.org/10.1177/2053019614564785.
[5] Un esame dei meccanismi fisici dell’effetto serra, in M. Mascia, S. Morandini, Etica del mutamento climatico, Morcelliana, Brescia 2015.
[6] Aurélien Barrau, Ora. La più grande sfida della storia dell’umanità. Adds, Torino 2020.
[7] Sull’Enciclica sulla cura della casa comune mi permetto di rimandare a S. Morandini, Laudato si’. Un’enciclica per la terra, Cittadella, Assisi 2015; Id., Un amore più grande del cosmo. Laudato Si’ per un anno di misericordia, Cittadella, Assisi 2016.
[8] La salvaguardia del creato come sfida ecumenica è il titolo del corposo dossier di Studi Ecumenici 38 (2020), nn.1-2.
[9] D. Wallace-Wells, La terra inabitabile. Una storia del futuro, Mondadori, Milano 2020.
[10] E. Giovannini, L’utopia sostenibile, Laterza, Roma-Bari 2018.
[11] M. Mascia (a cura), L’agire ecologico, Proget, Padova 2018; S. Morandini (a cura), Etica delle generazioni, Proget, Padova 2019.
[12] J. Franzen, E se smettessimo di fingere? Ammettiamo che non possiamo più fermare la catastrofe climatica, Einaudi, Torino 2020.

da Esodo 1/2021, Etica e impresa: un incontro possibile?, pp. 29-33