di Danny Castiglione, di Officina 31021

Si chiama The Game perché se riesci hai vinto, se perdi ci provi un’altra volta.
La chiamano proprio così la rotta balcanica: “The Game”. Le prove da superare: sentieri impervi, barriere di filo spinato, forze armate, polizia, manganelli, telecamere termiche e droni. Se le superi la salvezza, se ti fermi o l’inferno o la morte.

La prima tappa di questo “game” è la Grecia, poi la Rotta Balcanica continua con Bulgaria, Macedonia, Serbia, Albania, Ungheria, Bosnia Erzegovina, Croazia, Slovenia, fino ad arrivare al suo punto più estremo in Italia, a Trieste. Spesso chi intraprende questa rotta ha poi come meta finale i paesi del nord Europa, ma solo in pochi riescono a completare questo viaggio.

Durante il mese di febbraio ho avuto la possibilità di percorrere un pezzo di questa rotta trovando una situazione disastrosa.
Tralasciamo l’odissea di burocrazia per chi come noi voleva portare semplicemente un aiuto materiale, il viaggio di 800 chilometri è durato 23 ore e siamo stati fortunati. Altre organizzazioni ci mettono addirittura diversi giorni per fare lo stesso tragitto. Sembra, infatti, che perfino portare aiuti a persone bisognose sia osteggiato dai governi e dalla polizia dei vari paesi che si attraversano. 
Ho avuto altre esperienze in campi di rifugiati ma nemmeno in zone di guerra ho visto così poco rispetto per il genere umano come in questi territori di confine tra Bosnia e Croazia. Persone totalmente abbandonate al loro destino, ignorate dalla maggioranza della popolazione locale ed europea. Dei fantasmi di cui nessuno si vuole occupare. Sembra il gioco “monopoli” solo che qui spesso le pedine, gli esseri umani, perdono tutti i soldi senza ottenere nulla.
In qualsiasi ragionamento riguardante le migrazioni e le rotte migratorie, bisogna per forza di cose partire da un punto fermo: i muri non fanno cessare le migrazioni, non stiamo mica giocando ad Arkanoid, eventualmente le spostano o le lasciano nelle mani della criminalità organizzata o a un destino crudele. Il filo spinato non ferma i tentativi di migrazione, ma semmai spinge i migranti ad affidarsi a qualcun altro. Travolti dalla disperazione, l’unica via per un futuro migliore diventano i contrabbandieri e i trafficanti. Sfiderei chiunque a non provarci come fanno queste persone. O si accetta che le migrazioni siano gestite da criminali oppure si deve dargli un’alternativa che non sia quella di far finta di niente.

I campi allestiti in Bosnia per accogliere i migranti, nonostante l’egregio lavoro dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM), sono spesso inadeguati, in condizioni igienico-sanitarie precarie e con una mancanza di cibo patologica. Il personale presente prova a fare, molto bene, quello che può, ma è tutto il meccanismo che non funziona. Molte delle persone incontrate hanno mosso la loro pedina mesi fa, altre addirittura anni tornando quasi sempre indietro. Il problema di questo “game” è che le vite non sono infinite, se la perdi non c’è la possibilità di tornare al via. I più fortunati, e sono pochissimi, raggiungono la loro meta, la maggior parte delle persone è stabile sulla stessa casella di transito/prigione, altre invece perdono la loro unica vita. Lanciano il dado in continuazione ma è un costante, se va bene, +1 e -1 e il risultato lo conoscete benissimo... è 0.

Tutte le persone incontrate sono disperate, pronte a rinunciare a qualsiasi bene anche all’amore dei propri figli piuttosto di farli crescere in questo inferno. Perché non ci sono altre parole, vivere in un campo profughi, regolare o non regolare, non è casa, non è vita, è solo un inferno. I campi ufficiali sono totalmente insufficienti anche per il numero di migranti presenti, ed ecco che molto di loro si rifugiano negli squat (case e fabbriche abbandonate) o nei boschi. Si stima che più di 4 mila persone vivano in questi “campi non ufficiali” senza ricevere qualsiasi aiuto. Niente medicine, niente cibo, niente acqua, niente elettricità, niente riscaldamento. 
Ho visto con i miei occhi uno di questi tanti rifugi precari (squat) nei quali trovano riparo le migliaia di migranti fuoriusciti o mai entrati nel circuito formale dei campi gestiti dall’IOM.
Ho incontrato persone incastrate in questo inferno da anni, che continuano a combattere per il proprio futuro e per quello della loro famiglia. Uomini e donne provenienti dalle più diverse regioni del pianeta le cui storie devono essere raccontate. Storie come quella di Shanaz che viene dall’Afghanistan ed è bloccata in Bosnia da cinque anni insieme al marito e ai suoi due bambini e sogna un futuro migliore per i suoi figli che dalla nascita a oggi hanno visto solo campi profughi o filo spinato, o quella di Salah, un ragazzo fuggito dall'Iran perché perseguitato per gli articoli che scriveva e che racconta con rabbia l’esperienza dei pushback e dei rimpatri illegali.
Ho conosciuto tanti uomini, tante donne e tanti ragazzi che dormono nel calore della plastica bruciata, in un’aria irrespirabile che fa lacrimare gli occhi e bruciare la gola. Prendono l’acqua da un pozzo o dal fiume. Dormono per terra in un gelido inverno che registra temperature fino a -20 gradi. In quel posto ho visto sparire l’umanità e cancellata la dignità umana. Ho provato vergogna per come abbiamo potuto permettere che si creassero situazioni simili. Ho provato vergogna perché costantemente continuiamo tutti a girare lo sguardo dall’altra parte pur di non vedere quello che sta succedendo.
In questi spazi non regolari è rischioso anche, per le varie realtà che operano in questo territorio, portare degli aiuti concreti. Le accuse per chi porta aiuti in campi non regolari sono pesanti e la polizia svolge un pattugliamento costante attorno a queste strutture.

Puntare il dito contro il governo e/o la polizia croata o bosniaca vuol dire voltarsi dall’altra parte, è responsabilità dell’intera Unione Europea se le persone vengono costantemente respinte, maltrattate e lasciate morire nell’indifferenza totale di tutti gli stati membri. L’Italia inoltre non è certo esente da colpe, nel 2020 si è registrato, infatti, il record di respingimenti lungo il confine italo-sloveno. Si conta che più di 1200 (oltre il 400% in più rispetto al 2019) persone siano state rimandate in Slovenia l’anno scorso, innescando poi un respingimento a catene fino alla Bosnia dove l’Unione Europea preferisce lasciare i migranti per non gestirli. Non è servito a nulla nemmeno l’intervento di alcuni Eurodeputati italiani che si sono recati al confine croato-bosniaco per verificare la situazione. Dopo il clamore mediatico, scatenato più per il respingimento degli eurodeputati da parte della polizia croata che per la situazione dei migranti, tutto è tornato in un silenzio assordante. Nonostante tutto c’è un pezzo della società civile che continua con tenacia a fare il possibile per garantire un minimo di dignità a queste persone, sia in Italia sia negli altri paesi.

Stiamo rendendo l’Europa un enorme cimitero, sia in mare che in terra. E tutto questo ci riguarda. 
Game... Over.