di Giannino Piana

Che cosa pensi di un eventuale riconoscimento legale del suicidio assistito anche nel nostro Paese? Va sempre per principio rifiutato o esistono situazioni in cui lo si può ammettere?

Non sono di per sé contrario all’introduzione anche nella legislazione del nostro Paese del suicidio assistito, purché vengano circoscritte con precisione le condizioni richieste per il ricorso ad esso. Sono sempre stato un sostenitore dell’importanza delle cure palliative, ancora troppo poco praticate in alcune aree geografiche del nostro Paese.

La domanda del ricorso al suicidio assistito e, a maggior ragione all’eutanasia, è infatti spesso originata dall’adozione di cure sproporzionate con il prodursi dell’accanimento terapeutico o, inversamente, dall’abbandono a sé stessi di pazienti giudicati clinicamente inguaribili, specialmente se in fase terminale. Ma sono in ogni caso convinto che, nonostante l’auspicabile estensione di queste cure, si diano situazioni drammatiche di grave e insopportabile sofferenza nelle quali il ricorso al suicidio assistito diviene l’unica soluzione possibile. Ricordiamo tutti il caso Welby e i molti altri casi che sono venuti alla luce in questi ultimi anni – e sono soltanto la punta di un iceberg di quelli di fatto esistenti – e la necessità di affrontarli con un dispositivo legislativo adeguato.


Chi si oppone alla legalizzazione del suicidio assistito obietta che la sua introduzione innescherebbe inevitabilmente un processo di allargamento progressivo del suo esercizio, In altri termini, che darebbe luogo alla creazione di quella “china scivolosa” – così la definiscono gli esperti di etica – con la possibilità di gravi conseguenze, dovute alla presenza di una cultura mercantile, in cui a contare sono sempre più le logiche utilitariste e dell’efficienza produttiva. Che valore hanno per te queste motivazioni?

Quelli denunciati sono pericoli reali che vanno presi in seria considerazione. Esistono Stati nei quali si è passati da una chiara delimitazione della possibilità di accedere al suicidio assistito a una progressiva estensione della sua praticabilità, fino alla sua liberalizzazione. Emblematici sono il caso olandese, dove si è fatta strada la domanda di estensione ai bambini, quando per ragioni particolari a richiederlo sono i genitori. O il caso canadese, dove una consistente percentuale di cittadini si è dichiarata favorevole alla sua estensione a soggetti che vivono in stato di grave povertà o che sono senza fissa dimora. L’assoluta immoralità di quest’ultima possibile applicazione è evidente e costituisce la riprova dell’effettivo rischio della “china scivolosa” in un contesto culturale come quello descritto. Anziché venire incontro alle situazioni di marginalità sociale con il ricorso a una equa distribuzione della ricchezza – è questo un dovere di giustizia inderogabile – si preferisce lasciare i poveri nella loro condizione, offrendo loro come alternativa la possibilità di ricorrere al suicidio assistito! Per questo la mia richiesta è che il legislatore non solo stabilisca fin dall’inizio l’ambito entro il quale è possibile il ricorso, ma mantenga anche con rigore la posizione iniziale, non indulgendo nei confronti di eventuali pressioni dell’opinione pubblica ma intervenendo, anche con pesanti sanzioni penali chi trasgredisce la legge.

Vi è chi sostiene che, trattandosi di una questione privata sarebbe meglio che la legge non intervenisse, lasciando la scelta alla volontà del singolo cittadino? Che ne pensi?

Penso non si tratti di una questione “privata”, bensì “personale”, che chiama in causa il singolo in quanto “soggetto relazionale”, e che ha dunque (e non può che avere) immediati risvolti sociali da non sottovalutare o tanto meno eludere. La richiesta che non si intervenga a livello legislativo, lasciando a ciascuno la piena libertà di scelta è purtroppo il frutto di una cultura individualista oggi dominante – si tratta di un altro fattore negativo da aggiungere agli altri ricordati – che trova qui espressione in un’antropologia privatistica assai diffusa. La libertà individuale deve fare i conti con le ricadute sociali dei vari processi messi in atto. Per questo sono fortemente contrario a una liberalizzazione selvaggia, che rischia di avere effetti devastanti sulla vita collettiva.