di Vincenzo Rosito   

Bisogna indagare le metamorfosi della vita urbana per cogliere le più radicali trasformazioni del tempo presente. L’urbano non descrive esclusivamente una dimensione geografica o un ritaglio amministrativo della vita comune, ma diventa un laboratorio privilegiato per la comprensione dei cambiamenti in atto. Le crisi, le tragedie, le cesure o le accelerazioni della storia trovano nella città un preziosissimo campo di analisi. Leggere e interpretare il cambiamento muovendo dalla prospettiva dell’urbanizzazione è un esercizio di ermeneutica politica e sociale.

Volendo comprendere il mondo, benché confinato in un carcere nazista, Dietrich Bonhoeffer scriveva: «Le grandi città, dalle quali gli uomini si attendono la pienezza della vita e del piacere e nelle quali si accalcano come ad una festa, hanno attirato su di sé morte e distruzione ed ogni immaginabile terrore, e donne e bambini come in fuga hanno abbandonato questi luoghi di orrore […] Se milioni di persone, che non possono più rinunciare all’animazione e alle esigenze della vita delle grandi città, si trasferiranno in campagna, se intere industrie vengono installate in distretti agricoli, ne seguirà una forte accelerazione dell’urbanizzazione della campagna e la struttura della vita di campagna sarà radicalmente trasformata»[1].

Con lucidità estrema Bonhoeffer intuisce, nel 1944, che i futuri cambiamenti epocali non riguarderanno singole istituzioni o riferimenti culturali come la città, ma interesseranno i processi di identificazione e i criteri di distinzione in uso nella vita quotidiana. L’urbanizzazione è in grado di perforare e confondere consolidate opposizioni binarie come urbano/rurale, centro/periferia, locale/globale. L’urbanizzazione non è solo una cassa di risonanza in cui si riverberano le più incisive commistioni o ibridazioni del tempo presente. Essa agisce come principio di stordimento: confonde le distinzioni consolidate, smuove i sistemi autoimmuni, inquieta i discorsi a verità garantita, direbbe Michel de Certeau.

Il pastore protestante Dietrich Bonhoeffer viene arrestato il 5 aprile 1943 con l’accusa di cospirazione nei riguardi del regime nazista e per aver contribuito all’organizzazione di una congiura contro lo stesso Hitler. Dopo essere stato condotto presso il carcere berlinese di Tegel, Bonhoeffer viene giustiziato nel campo di concentramento di Flossenbürg all’alba del 9 aprile 1945. Le sue lettere dal carcere costituiscono un caposaldo della teologia del novecento. Dall’oscurità di una cella nazista Bonhoeffer scrive e fa teologia “rispondendo” in prima persona alle urgenze e alle emergenze del suo tempo. Le sue non sono considerazioni sul mondo e su Dio, ma pensieri rivolti agli uomini, quasi sempre in forma di lettere, nel tentativo di penetrare sempre più coerentemente e radicalmente il mistero dell’incarnazione. Le scelte politicamente ed eticamente radicali fatte da Bonhoeffer sono maturate alla luce della sua stessa fede in quanto sequela di Cristo e conformazione a lui nel movimento di abbassamento e di estromissione dal mondo. La responsabilità agisce nella vita di sequela non come uno slancio eroico o iperumanistico. Si agisce responsabilmente non quando ci si spinge “al di sopra” dell’uomo, ma quando si percorrono fino in fondo i passi del Figlio di Dio fatto uomo. I passi di Cristo infatti non si elevano “oltre” o “sopra” il vivere comune, ma lo attraversano orizzontalmente facendone scaturire in questo modo tutta la densità e la sensatezza. La responsabilità del cristiano si esprime pienamente assumendo lo stesso atteggiamento di Cristo il quale non si è posto “al di là” della vita e delle opere umane, ma ha confermato la scelta di stare “al di qua” della vita degli uomini. Cristo predilige la mondanità dell’esistere in quanto decide di mettersi dalla parte degli uomini e della loro finitezza. Quello di Bonhoeffer è un discorso a totale estensione cristologica perché «riconosce la presenza nascosta di Cristo in ogni punto o momento della realtà mondana e da qui deduce la consistenza e la dignità della “Diesseitigkeit” (l’essere-al-di-qua)»[2].         

Bonhoeffer può essere considerato il principale ispiratore di un’ermeneutica cristiana del mondo adulto. Essere adulti significa comprendere che il riconoscimento della perdita o della sconfitta non può rivendicare né la prima, né l’ultima parola nella vita degli uomini. Ogni discorso “adulto” intorno alle trasformazioni del tempo presente diventa un discorso sulla parzialità del punto di vista di chi lo pronuncia, non solo una nostalgica ammissione dell’impotenza di costui. Si diventa adulti riconoscendo la potenza di trasformazione e di rinnovamento iscritta nel confinamento particolare da cui parliamo. Scoprirsi parziali dentro la coralità culturale che supera i confini della propria casa o della propria chiesa è oggi un modo per aggiornare la riflessione di Bonhoeffer sul ruolo del cristianesimo nel mondo diventato adulto. L’ammissione di questa parzialità può essere rinvenuta anche nelle parole di un recente discorso di Francesco alla curia romana: «Le popolazioni che non hanno ancora ricevuto l’annuncio del Vangelo non vivono affatto soltanto nei Continenti non occidentali, ma dimorano dappertutto, specialmente nelle enormi concentrazioni urbane che richiedono esse stesse una specifica pastorale. Nelle grandi città abbiamo bisogno di altre “mappe”, di altri paradigmi, che ci aiutino a riposizionare i nostri modi di pensare e i nostri atteggiamenti: Fratelli e sorelle, non siamo nella cristianità, non più! Oggi non siamo più gli unici che producono cultura, né i primi, né i più ascoltati»[3].

Secondo Bonhoeffer diventare adulti è una questione centrale per la vita cristiana in quanto sequela (Nachfolge). Non si tratta di acquisire virtù o capacità personali che facciano uscire l’individuo da uno stato di minorità o soggezione. Essere adulti non richiede un rigoroso esercizio ascetico o un lavoro sulla propria persona, ma esige uno sforzo di intelligenza collettiva nel comprendere il mondo che tutti abbiamo in comune. Per questa ragione la riflessione di Bonhoeffer sulla mondanità del mondo (Weltlichkeit) non può essere separata dalla verifica dei poteri (degli uomini e di Dio) che il cristianesimo costantemente esige da individui e comunità. In estrema sintesi, il discorso sull’età adulta del cristiano si intreccia con il discorso politico intorno alla gestione del potere e della potenza nella vita di ciascuno, in funzione della vita di tutti. La nota affermazione con cui Bonhoeffer ribadisce che dobbiamo vivere nel mondo “etsi deus non daretur”, è un invito a misurare il potere che esercitiamo, in quanto individui e comunità, con la forma del potere esercitato da Cristo. «Davanti e con Dio viviamo senza Dio. Dio si lascia cacciare fuori dal mondo sulla croce, Dio è impotente e debole nel mondo e appunto solo così egli ci sta al fianco e ci aiuta»[4].

Essere adulti in un mondo diventato adulto significa confrontarsi seriamente con la forma che Cristo assume nel mondo. Il gesto massimamente espressivo del modo con cui Dio “sta al mondo” coincide con l’estromissione di Dio dal mondo. Cristo è colui che si è lasciato escludere, egli è l’espulso, l’estromesso. Cristo è il “cacciato-fuori”. Alla luce di un simile movimento, il senso dell’autorità esercitata da Cristo può essere compreso prima di tutto seguendolo nelle vicende della sua vita ovvero inseguendolo nelle occasioni in cui è stato messo da parte, relativizzato, scacciato o alienato. Il rapporto di Dio con il mondo non può essere capito senza entrare nella logica con cui Dio si lascia ridurre a parzialità irrilevante ed escludibile dal mondo stesso. La forma di Cristo ovvero la forma assunta da Dio mentre si lascia mettere-fuori dalla scena delle autorità mondane, diventa un’istanza critica radicale nei riguardi di tutte le rappresentazioni del potere (politico, sociale o religioso).

Con estrema chiarezza Bonhoeffer vede e rappresenta la questione centrale per la teologia politica: come immaginare la relazione pratica e simbolica tra la conformazione a Cristo e la forma storica della città? Quali pratiche, segni e discorsi dovrebbero emergere e assumere concretezza storica tra l’immagine del fondamento estromesso e le immagini dell’autorità esercitata in una comunità o da una comunità? Queste domande trovano risposte efficaci se mobilitano il lavoro urgente e necessario intorno all’idea di forma. La teologia politica di Bonhoeffer e in particolare la sua cristologia politica trovano oggi un efficace luogo di espressione nel campo delle pratiche culturali ovvero nel campo delle pratiche politiche e teologiche quali azioni condivise e performative, capaci di esercitare forme e forze della vita credente.

Questa applicazione è particolarmente evidente nell’ambito dell’apprendimento scolastico o accademico. In-formare uno studente universitario non significa pretendere di cambiare la sua “forma” trasmettendogli nozioni e conoscenze da lui ignorate. Lavorare sulla forma dell’apprendimento significa prima di tutto comprendere che le pratiche formative sono rivolte principalmente a mettere lo studente dentro una forma più ampia. Nell’impresa educativa la cosa più importante è l’ambiente formativo ovvero è il contesto relazionale che apre alla capacità di muoversi nel mondo. Formare, nell’ambito dell’insegnamento e dell’educazione, significa aiutare le persone a collocarsi in una forma più grande e coinvolgente. Seguire un maestro o recepirne gli insegnamenti non significa replicare la sua forma docendi, ma dividere con lui lo stesso spazio di apprendimento e di ricerca, stabilire una relazione con il mondo che discepolo e maestro hanno in comune con molti altri. Se un docente universitario pensa che «dopo un primo tempo propedeutico (in cui primaria è la trasmissione di informazioni), segue un tempo il cui scopo è introdurre gli studenti all’interno della ricerca, i corsi di questo secondo livello non mireranno tanto alla trasmissione di un contenuto, quanto invece a condividere uno spazio che è quello della ricerca del docente stesso, trovando un posto adatto allo studente, che in tal modo condizionerà inevitabilmente la forma dell’area di ricerca stessa, o metterà in moto un’altra ricerca. L’attenzione principale da porre è che il luogo – la ricerca – sia vivibile»[5].

La cristologia politica di Bonhoeffer sollecita oggi un’attenta riflessione sulla forma del credere. Rivendicare o maturare una forma per l’uomo e per la donna di sequela non significa assumere semplicemente una funzione riconoscibile da sé o da altri. La conformazione a Cristo, iscritta nella dinamica evangelica della sequela Christi, è allo stesso tempo una questione pratica e una questione di pratiche. Essa riguarda il mondo dei gesti e la storia degli incontri formali o informali che facciamo durante la nostra vita. La forma, essendo un modo della relazione col mondo e non solo una qualità personale, agisce come dinamismo relazionale e processuale nelle occasioni concrete del quotidiano. Le forme presenti nella sequela di Cristo hanno a che fare con le relazioni informali in cui siamo quotidianamente coinvolti.

C’è una riserva ragguardevole e benefica di informalità anche dentro le istituzioni. In ogni contesto istituzionale c’è più di un modo per condividere gli spazi e gli ambienti tra persone diverse. I luoghi istituzionali della rappresentanza politica, della vita professionale o del mondo ecclesiale sono fatti anche di relazioni informali, di incontri fortuiti e occasionali, di conversazioni appassionate e di alleanze inconsuete. L’informalità delle pratiche sociali, civili e politiche diventa un luogo da conoscere e valorizzare dal momento che “informale” non significa “assenza di forma”, ma riconoscimento di più persone dentro una forma specifica e peculiare. L’informalità è un luogo di rapporti vitali dove la creatività e l’esuberanza di alcune azioni collettive sono in grado di aggiornare o riformare le generali condizioni di vita (istituzionale, politica ed ecclesiale). Le relazioni informali non sono relazioni occulte o sciatte, sono invece contesti in cui riusciamo a toccare e ad essere toccati dalle forme incipienti o non ancora strutturate della vita comune. L’informalità diventa un luogo di sequela nella misura in cui si manifesta come condizione di docilità verso le relazioni nascenti, come sensibilità diffusa nei riguardi delle consapevolezze non ancora raggiunte. L’informalità è una condizione di sensibilità alla voce dello Spirito.

L’informalità riguarda prima di tutto il modo con cui parliamo, il linguaggio che usiamo per esprimerci o per dire le cose che hanno più importanza. La verità del linguaggio non riguarda esclusivamente il peso delle parole pronunciate, ma anche la forma assunta dalla voce che esce di bocca, la forma e-statica di una parola efficace in quanto parola informale. Il peso dei nostri discorsi dipende dalla dialettica di parole affettate e affezionate, dal rapporto tra formale e informale, autorizzato e fuggitivo. Parlare mondanamente di Dio significa maneggiare l’attrattività estatica dei linguaggi informali senza perdere il senso della radicale appartenenza al mondo che tutti abbiamo in comune: «Come parliamo (o forse appunto ormai non si può più “parlare” come s’è fatto finora) “mondanamente (weltlich) di “Dio”, come siamo cristiani “non-religiosi-mondani”, come siamo έκ-κλησία, cioè chiamati-fuori, senza considerarci religiosamente favoriti, ma piuttosto in tutto e per tutto appartenenti al mondo?»[6].

Essere chiesa significa essere “chiamati-fuori”, uscire da se stessi per liberarsi dalle rigidità autoconservative o dalle ossessioni autoreferenziali. Bisogna essere in un costante stato di uscita per “sentire con gli altri” e condividere con loro tutta l’amarezza per le promesse tradite o disattese. Bonhoeffer riconosce e denuncia con estrema chiarezza i limiti di una chiesa che «ha lottato solo per la propria sopravvivenza»[7]. La sua vivida riflessione non si limita a correggere o emendare, ma ha i tratti del lascito duraturo, è uno slancio visionario e profetico che indica concrete prospettive di sequela come quella della fraternità universale: «Potranno entrare in scena eventi e rapporti che andranno oltre i nostri desideri e i nostri diritti. In questo caso dimostreremo la forza della nostra vitalità non assumendo un atteggiamento amaramente e sterilmente orgoglioso, ma piegandoci consapevolmente sotto un giudizio di Dio e partecipando con larghezza di cuore e altruismo alle sorti generali e alla sofferenza dei nostri compagni d’umanità»[8].

 

 Note

[1]D. Bonhoeffer, Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, San Paolo, Milano 1996, 366.
[2]N. Bosco, Dietrich Bonhoeffer. L’etica come luogo teologico, in Dietrich Bonhoeffer. Eredità cristiana e modernità, a cura di U. Perone, M. Saveriano, Claudiana, Torino 2006, 126.
[3]Francesco, Discorso alla Curia romana per gli auguri di Natale, 21 dicembre 2019.
[4]D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, 440.
[5]S. Morra - M. Ronconi, Incantare le sirene. Chiesa, teologia e cultura in scena, Edizioni Dehoniane, Bologna 2018, 41.
[6]D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, 349.
[7]Ivi, 370.
[8]Ivi, 369.

n.1/2022, Etica e politica in un tempo di incertezza pp.19-23