di Alberto Maggi   

Padre Maggi, la sua visione della morte e dell’aldilà è profondamente influenzata dall’esperienza diretta da lei vissuta.

La mattina del 9 aprile 2012, un’ambulanza mi portava a sirene spiegate verso l’ospedale, dove sarei rimasto per quasi tre mesi, combattendo tra la vita e la morte, sottoposto a diversi pesanti interventi chirurgici. È stata un’esperienza meravigliosa che ha arricchito la mia vita, con la presenza del Signore accanto a me palpabile, che mi ha fatto sperimentare la verità dell’espressione di San Paolo: “Quando sono debole, è allora che sono forte” (2 Cor 12,10), e che mi ha aiutato a trasformare una situazione indubbiamente negativa in positiva.

Prima di questa grave infermità, sul morire avrei scritto quello che avevo studiato o appreso da altri, cui indubbiamente credevo; ma dovevo farne io l’esperienza, dovevo io vivere il morire, e questo è stato positivo. La notte in cui stavo ormai morendo e i medici pensavano che non sarei arrivato all’indomani, scrissi serenamente su un foglietto tutte le indicazioni per il mio funerale. Non sentivo angoscia ma curiosità, non ero spaventato, ma quasi euforico di entrare nella nuova definitiva dimensione della mia vita, e mi sentivo invadere da un crescendo di serenità e di gioia incontenibili e traboccanti.

Quindi una percezione della morte molto positiva che infonde anche serenità e fiducia nella vita. Ci può spiegare questa visione escatologica che trova le basi nella lettura del Nuovo Testamento?

 “Maestro che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?” chiede a Gesù il dottore della Legge in Lc 10,25. Nelle sue risposte, Gesù parla solo di vita, omettendo la parola eterna. Invita i suoi interlocutori a riflettere sulla loro vita, se è veramente vitale, e non tanto a preoccuparsi di quella eterna. Nei Vangeli si usano due termini importanti per indicare la vita. Uno è bios, che è la vita biologica: ha un inizio, ha una sua crescita, ha un suo massimo sviluppo e poi, inevitabilmente, incomincia la parabola del declino, fino al suo disfacimento. Ma in questa vita ce n’è un’altra, che in greco è chiamata zoe, che è la vera vita, quella definitiva. Mentre la prima va alimentata con il cibo, la seconda per crescere, deve nutrire. Per Gesù la Vita eterna non è la condizione che riceve come premio dopo la morte chi si è comportato bene, ma una qualità di vita a disposizione di quanti collaborano con lui alla trasformazione di questo mondo attuando il progetto del Padre sull'umanità: la realizzazione del Regno. 
Gesù esprimendosi al presente dice “Chi crede ha la vita eterna” (Gv 3,36). “Se uno osserva la mia parola non vedrà mai la morte” (Gv 8,51). Chi vive come lui ed è vissuto operando sempre del bene, non farà l'esperienza del morire. Nel Vangelo di Giovanni, Gesù segna il passaggio dal vecchio concetto di vita, morte e risurrezione al nuovo di una vita che contiene già in sé tutta la potenzialità della resurrezione. Per l’evangelista il Signore non è venuto ad alterare il ciclo normale della vita eliminando la morte biologica ma a dare a questa un nuovo significato. Gesù, il Figlio di Dio, viene a comunicare la vita che egli stesso possiede: la vita divina indistruttibile. Gesù non promette la vita eterna a chi lo segue, ma chi lo segue sperimenta già una vita che è e sarà per sempre nell'uomo, immediatamente, una vita di una qualità tale da essere definitiva, e non cesserà mai. Il credente in Gesù non subirà alcun giudizio ma è già nella pienezza di vita: “Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte” (1Gv 3,14). Io sono la resurrezione e la vita afferma Gesù, “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14,6). Con Gesù la resurrezione non è relegata in un lontano ipotetico futuro, poiché lui che è la vita, è presente, la resurrezione non sarà ma è, non domani ma ora, perché è legata alla persona stessa di Gesù e al dono dello Spirito. L’ultimo giorno, quello della resurrezione è pertanto già arrivato poiché Gesù è la resurrezione. “Chiunque vive e crede in me non morirà mai” (Gv 11,26). Nella sua dichiarazione Gesù non parla certamente della vita biologica bios, che ha un inizio e una fine, ma di quella interiore spirituale zoe, che inizia ma non ha mai termine. A quanti gli danno adesione Gesù comunica il suo stesso Spirito, la sua stessa vita, che essendo divina, non è minacciata dalla morte. 
Per indicare questa nuova realtà della vita eterna sperimentata non più come eventualità futura ma come possibilità concreta nell'esistenza quotidiana, e della morte non come una fine ma come un nuovo inizio, gli Evangelisti hanno adoperato immagini prese del ciclo vitale della natura quali sono il dormire, il seminare, lo splendere: tutte situazioni che non indicano una fine, ma un nuovo inizio, non una distruzione ma una rinascita, il morire non è il limite invalicabile della vita, ma è raggiungere il traguardo che apre a nuove successive e ineffabili dimensioni dell'esistenza: come il dormire è quell’azione che consente all'individuo di rinfrancarsi dalla stanchezza per poi riprendere con maggior energia la sua vita, così la morte è una pausa nella quale, come per il sonno, l'individuo riposa dalle fatiche per poi risvegliarsi con nuovo aumentato vigore. 
È il morire che consente di vivere. La morte non uccide la vita ma le permette di manifestarsi nel suo massimo grado liberando tutte le energie non più rinchiuse nei limiti biologici e spaziali dell'esistenza terrena. Attraverso l'immagine del chicco di grano che una volta seminato marcisce producendo frutto abbondante, Gesù mostra che la morte non è che la condizione perché si liberi tutta la forza vitale che l'uomo contiene, tutte quelle potenzialità che nel breve arco della sua esistenza terrena, non ha potuto manifestare. Con la morte tutte queste capacità ed energie saranno completamente liberate e sviluppate e concorreranno alla definitiva crescita della persona. La morte non distrugge l'uomo ma è un’esplosione di fecondità che lo proietta nella sua esistenza definitiva, nella sua reale piena identità, verso la conoscenza di un “nuovo nome che nessuno conosce, se non colui che lo riceve” (Ap 2,17). La vita in lui racchiusa si manifesterà in una forma nuova incomparabile con la precedente: “Ora siamo figli di Dio, ma non è stato ancora manifestato ciò che saremo. Sappiamo che quando egli si sarà manifestato saremo simili a lui, perché lo vedremo come egli è” (Gv 3,2). Con la morte l'uomo si trova di fronte la pienezza sfolgorante della luce di Dio. Questa luce non assorbe l'uomo ma è l'uomo che nella misura in cui la accoglie dilata il suo essere in un crescendo senza fine. Quelli che si risveglieranno alla vita eterna, si legge nel libro del profeta Daniele, “risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre”. Chi nella vita, attraverso il bene fatto sarà diventato luce, si sentirà irresistibilmente attratto dalla luminosità della luce divina, vi s’immergerà, ma non si trasformerà in luce perché sarà la luce che lo trasformerà, dilatando il suo essere spingendolo verso dimensioni infinite. La trasfigurazione di Gesù sarà la stessa che si compirà in quanti gli daranno adesione. I vangeli assicurano che con la morte, Dio non toglie le persone da questa vita, ma le accoglie nella sua, e queste entrano in una nuova definitiva dimensione della propria esistenza.

Quando invece la vita spirituale zoe non è in sintonia con l’ideale di Gesù, che succede?

Oltre alla morte fisica, la fine della bios, che non interrompe la vita del credente, c’è il rischio di una morte anche della zoe, la fine definitiva totale che spegne ogni speranza di futura continuazione ed è chiamata nel Nuovo Testamento morte seconda. ”Per i codardi, gli increduli, gli abominevoli, gli omicidi, gli immorali, gli stregoni, gli idolatri e tutti i menzogneri, la loro sorte sarà nello stagno ardente di fuoco e di zolfo che è la morte seconda” (Ap 21,8). Nell'uomo che orienta la propria vita al bene degli altri inizia un processo di trasformazione che fa sì che la vita meramente fisica (bios) destinata al disfacimento, confluisca e si trasformi in vita spirituale (zoe), esistenza divina destinata a durare per sempre. Le scelte positive compiute nell'arco della sua esperienza, sviluppano nell’individuo tutte le sue capacità d'amore e realizzano in lui il disegno di Dio dandogli la sua struttura definitiva cioè eterna. Solo con la morte, infatti, si diventa quel che si è veramente. 
Con la bios l'uomo è solo un essere vivente, mentre la zoe permette che sia un individuo vitale. La prima morte, quella alla quale tutti siamo inevitabilmente destinati, è quella biologica, con il disfacimento della componente fisica della persona. Ci può essere il rischio che quando sopraggiunge la morte, non trovi alcuna presenza di zoe. Le scelte negative, infatti, rovinano e possono distruggere l'immagine che l'uomo era chiamato a realizzare e quando sopraggiunge la morte, essa trova una persona svuotata di energie vitali che rende impossibile l'esistenza oltre la morte, perché l'uomo per la sua natura non è né mortale né immortale ma è creato con la possibilità di dirigersi nei due sensi. La seconda morte è pertanto la constatazione del fallimento della propria vita della mancata risposta agli stimoli vitali in tutta l'esistenza. L’individuo si è preoccupato solo di nutrire se stesso senza minimamente pensare ad alimentare le altre vite. Queste sono persone viventi ma non vitali, vivono ma non vivificano. Per loro la morte può essere la fine di tutto. “Via lontano da me maledetti, nel fuoco eterno preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato” (Mt 25, 41-43).
Se l'opposizione ai valori della società ingiusta può provocare al discepolo la persecuzione e anche la perdita fisica, l'adesione ai valori del sistema rappresentato da mammona, ossia il profitto, la ricchezza, conduce l'uomo alla totale distruzione della propria esistenza. Il monito del Nuovo Testamento è dunque drammatico: ci può essere il rischio che la morte biologica coincida con la fine definitiva dell'individuo. Ma che qualcuno sia incorso in questo totale annientamento nessuno lo può sapere e neanche ipotizzare. Anzi in Matteo 18,14 si legge: “È volontà del Padre vostro che è nei cieli che neanche uno di questi piccoli si perda,” e fa di tutto per far accogliere a ogni uomo e donna la sua proposta di pienezza di vita, “Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disobbedienza per essere misericordioso verso tutti” (Rm 11 32). 
Nel Nuovo Testamento nell’esprimere il concetto di giustizia di Dio, si usa il termine dikaiosyne che traduce l’ebraico chesed (misericordia). La giustizia di Dio è pertanto intesa come attuazione delle promesse e quindi aiuto e salvezza costante. Questa giustizia-fedeltà si rivela pienamente in Gesù, nel quale Dio offre all’uomo la sua giustizia ossia la salvezza: “Ora invece indipendentemente dalla Legge si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla Legge dei Profeti; giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono. Infatti, non c'è differenza, perché tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù (Rm 3,21-24).

Evidentemente, e finalmente, in questa lettura dellaldilà viene superata lidea di un Paradiso o di un Inferno come luoghi in cui risiedano le anime, ma sorgono anche delle domande: dove si trova Dio e dove si trovano gli uomini nuovi?

Dio non sta in cielo. Attraverso il Figlio, il Padre si rende accessibile, e vedere Dio non è un'esperienza riservata a individui straordinari, ma la normale esperienza di chiunque abbia accolto Gesù e il suo messaggio come assicura il Signore proclamando nelle Beatitudini: “Beati i puri di cuore perché questi vedranno Dio” (Mt 5,8). La purezza cui si riferisce Gesù nella beatitudine nasce nella parte più intima della persona, nella sua coscienza che, nella cultura ebraica, viene identificata nel cuore, la parte interiore dell'uomo, sede del pensiero e della volontà. Questa limpidezza dell'uomo è frutto della sua adesione. La beatitudine della povertà fa sì che, su quanti scelgono liberamente di condividere generosamente quel che sono e quel che hanno con chi non è e non ha, Dio si manifesti pienamente. La rinuncia dei discepoli a ogni forma di ambizione li conduce a una trasparenza permanente di vita che si esprime nella sincerità dei rapporti con gli altri. La fedeltà a questo comportamento dona loro la possibilità di una costante profonda percezione della presenza di Dio in ogni momento della vita. È la trasparenza di condotta nei confronti degli uomini quel che permette di percepire la presenza “del Dio con noi”, il Dio che si è fatto uomo. Dio è luce è questa luce è percettibile a coloro che, usciti dal mondo delle tenebre, sono anch’essi diventati luce. Chi è luminoso, trasparente, coglie nella sua esistenza la luce di Dio, luce che illumina e fa sorgere la vita. Non più condizionata da tempi e spazi sacri, l'aspirazione dell'uomo di poter vedere Dio diventa quotidiana realtà nell'esistenza dei puri di cuore. Come la visione di Dio viene estesa a tutti i credenti non come premio riservato in un lontano futuro ma come costante esperienza quotidiana, il vedere secondo la fede rende consapevoli che i defunti sono presenti e anche se l'uomo non li vede sa che da essi è visto, coloro che ci hanno lasciato non sono degli assenti, sono solo degli invisibili. Dipende dall’atteggiamento che abbiamo nei loro confronti. “Perché cercate tra i morti colui che è vivo?” Maria di Magdala, accanto al sepolcro piange Gesù morto e non si accorge del Cristo risuscitato accanto a lei, perché è condizionata dall’idea giudaica della morte come fine di tutto. Pensare che l’anima del defunto vive in cielo implica inevitabilmente un concetto di separazione. Con Gesù tutto questo cambia. Non è venuto per portare gli uomini verso Dio ma Dio agli uomini. Mediante lo Spirito, Dio non è una realtà esterna all’uomo ma interiore. Con la morte non si torna nella Casa del Padre, perché il credente è la Casa del Padre. Con la morte l’uomo non va in cielo, perché il Cielo è nell’uomo.
Il messaggio dei vangeli è che attraverso la morte, la persona continua la sua esistenza in una diversa dimensione, in una continua crescita e trasformazione di se stessa verso la piena realizzazione. L’immensità di Dio si manifesterà, nella molteplicità degli individui, attraverso forme nuove, inedite, di amore, misericordia, perdono. Ogni vita, trasformata e arricchita, con la morte entra nella pienezza della condizione divina. La morte è un passaggio a una dimensione di pienezza definitiva e felicità perpetua. Pertanto la resurrezione non è una seconda vita, ma la piena realizzazione di questa unica vita. Chi muore, non giace, continua a vivere, seppure in una dimensione diversa: intensifica la sua attività perché collabora all’attività vivificante del Creatore. Immersa nell’amore vivificante del Padre, con la morte, la persona viene liberata da tutte quelle scorie, quei limiti che nel corso dell’esistenza gli hanno impedito di manifestare in pienezza il suo amore. Tutto questo, ora è spazzato via e la persona può trasmettere il suo amore allo stato puro, in forme nuove, inedite. Con la morte, l’uomo diventa quel che da sempre era chiamato a divenire: il seme che si trasforma in spiga. 
La morte è una dolce amica che, anche nelle forme più drammatiche come può essere quella di un figlio, non mette la parola fine all’esistenza, ma introduce alla vita definitiva. Comprendere e accogliere serenamente l’aspetto naturale e non punitivo del morire rende sorella morte compagna di viaggio nella vita dell’individuo: vita e morte che convivono come alleate per la piena riuscita dell’esistenza della persona.

intervista a cura di Matteo Menegazzo

Esodo, n.2/2022, Se ci fosse la luce pp.45-50