di Paola Lazzarini, in Adista Documenti n. 44 del 23/12/2023

Gli obiettivi di sviluppo posti dall’Agenda 2030 per quanto riguarda la lotta alla discriminazione di genere e l’empowerment di donne e ragazze rappresentano qualcosa in più di semplici auspici, sono impegni precisi che tutti gli Stati del mondo – indipendentemente dal proprio livello di sviluppo – devono integrare, finanziare e rendicontare. Lo Stato del Vaticano non fa parte delle Nazioni Unite, rappresenta l’anomalia di essere “invitato permanente” senza diritto di voto, ma con la facoltà di partecipare ai dibattiti, presentare documenti e contribuire alle discussioni. Di fatto la sua voce è molto influente in questioni etiche, morali e sociali, in questo senso l’atteggiamento della Chiesa Cattolica sull’Agenda acquista un significato che va ben oltre ciò che avviene all’interno delle mura vaticane.

Ma in che modo un’istituzione che strutturalmente discrimina le donne impedendo loro l’accesso all’ordinazione può concorrere al raggiungimento della parità di genere? Potrebbe essere utile considerare alcuni tra i singoli traguardi previsti dall’obiettivo 5 e come questi trovano posto – o non lo trovano – nell’azione della Chiesa e quali contraddizioni aprano.

Il punto 5.2 traccia l’urgenza di eliminare ogni forma di violenza nei confronti di donne e bambine, compreso il traffico di donne e lo sfruttamento sessuale e di ogni altro tipo. Per quanto riguarda la lotta al dramma della tratta è importante ricordare come nella Chiesa cattolica agiscano forze importanti, citiamo la rete Talitha Kum, creata nel 2009 per coordinare le tante azioni e organizzazioni di suore che operano nel mondo, grazie al pluridecennale impegno delle religiose contro la schiavitù e la tratta delle persone. Il fatto che le suore siano in prima linea contro lo sfruttamento sessuale delle donne non stupisce, ma è un fatto che andrebbe accostato a un altro, di segno opposto, ovvero lo sfruttamento sessuale delle suore da parte dei preti (come Adista più di qualsiasi altro giornale ha raccontato). Quindi se da un lato le suore aiutano le donne a uscire dallo sfruttamento, dall’altra non si riesce ancora a superare una condizione di sfruttamento economico e sessuale da parte del clero maschile su di loro. La ragione di questo paradosso è la condizione di subalternità nella quale le religiose sono relegate a fronte di una casta sacerdotale maschile sacralizzata.

Per quanto riguarda l’eliminazione di ogni pratica abusiva come il matrimonio combinato e il fenomeno delle spose bambine (5.3), occorre dare conto dell’impegno della fondazione pontificia “Aiuto alla Chiesa che Soffre” in favore delle bambine e ragazze vittime di sequestri e matrimoni forzati, in particolare in Pakistan. La dottrina cattolica sul matrimonio, che mette al centro la libera scelta degli sposi, è un appiglio importante contro questo genere di pratiche e, inoltre, le mutilazioni genitali femminili che questo punto ricorda riguardano altre tradizioni religiose, rendendo di fatto più semplice per la Chiesa cattolica assumere una posizione chiaramente contraria.

Venendo a questioni che toccano la nostra esperienza quotidiana: la Chiesa cattolica è certamente incline a valorizzare la cura e il lavoro domestico non retribuito (5.4), a favorire la protezione sociale delle donne, ma quando si tratta di «promozione di responsabilità condivise all’interno delle famiglie»? L’attenzione è certamente posta più sulla differenza tra i ruoli dei due coniugi che sul loro pari dovere nella cura dei figli. C’è una sostanziale ambiguità nel messaggio cattolico riguardo all’impegno delle madri; anche recentemente papa Francesco ha detto: «Bisognerebbe comprendere di più la lotta quotidiana delle madri per essere efficienti al lavoro e attente e affettuose in famiglia; bisognerebbe capire meglio a che cosa esse aspirano per esprimere i frutti migliori e autentici della loro emancipazione». In questi messaggi apparentemente (e forse nelle intenzioni) solidali con le donne si manca sempre di chiamare in causa gli uomini, di richiamarli a una vera corresponsabilità, per cui alla fine prevale l’immagine infantile e rassicurante della mamma stanchissima, ma felice, in un quadro nel quale il padre è in un altrove imprecisato.

Il punto 5.6 riguarda l’accesso universale alla salute sessuale e riproduttiva e ai diritti in ambito riproduttivo, come già concordato dalla Conferenza di Pechino. Questo è il punto sul quale le strade tra Chiesa cattolica e ONU si divaricano più apertamente, perché la Chiesa ha sempre rifiutato l’approccio al tema scelto dall’ONU. Nel 2019, in occasione del Summit internazionale di Nairobi la Santa Sede comunicò che non avrebbe partecipato e che: «È deplorevole la decisione degli organizzatori di incentrare la Conferenza su alcuni temi controversi e divisivi che non godono di consenso internazionale e non riflettono accuratamente la più ampia agenda per la popolazione e lo sviluppo delineata dalla Conferenza internazionale. Questa e il suo vasto Programma di azione... non dovrebbero essere ridotti ai cosiddetti “diritti e salute sessuali e riproduttivi” e a una “esauriente educazione alla sessualità”. C’è al contrario l’urgente necessità di concentrarsi su aspetti critici del Programma di azione, come le donne e i bambini che vivono in stato di povertà estrema, le migrazioni, le strategie per lo sviluppo, l’alfabetizzazione e l’educazione...». Queste parole riflettono una precisa strategia di negazione dell’evidenza che povertà e diritti sessuali e riproduttivi sono inseparabili nella vita delle donne. Il 99% di tutti i decessi materni in gravidanza e parto si verificano tra le donne più povere del mondo, e ci sono prove chiare che il modo più efficace per ridurre l'aborto è dare loro accesso a una contraccezione efficace. Non ci sono segnali che la Chiesa cambi strategia e inizi a riconoscere il diritto delle donne alla salute sessuale e riproduttiva, ma se lo facesse le ricadute sarebbero immense. Basti pensare che oggi, nel continente africano, la Chiesa cattolica gestisce «circa 1.200 ospedali, 5.400 dispensari…, 1.700 consultori matrimoniali, 2.900 centri di educazione sanitaria…»: se questi iniziassero ad occuparsi di educazione sessuale e contraccezione, la vita e la salute di milioni di donne potrebbe cambiare.

Tra tutti i traguardi di sviluppo previsti dall’Agenda, i più controversi per la Chiesa sono quelli che riguardano direttamente la piena ed effettiva partecipazione femminile e pari opportunità di leadership a ogni livello decisionale in ambito politico, economico e della vita pubblica. Per fortuna sono lontani i tempi in cui il papa (Giovanni Paolo II) incontrando la presidente dell’Irlanda Mary McAleese, la ignorò andando a stringere la mano di suo marito prima della sua dicendo: «Non preferirebbe essere lei il presidente dell'Irlanda invece di sua moglie?». Eppure ancora oggi non ci sono segni di una sensibilità cattolica alla crescita di una leadership femminile in politica, economia e vita pubblica, ma – soprattutto – non c’è cenno di una reale crescita della leadership femminile all’interno della Chiesa stessa. È vero, papa Francesco ha portato alcuni cambiamenti: dal 2022 per la prima volta nella storia il Governatorato della Città del Vaticano ha una donna come Segretario Generale, due donne sono state nominate all’interno del Congregazione per i Vescovi, senza dimenticare suor Nathalie Becquart, vice segretaria del Sinodo dei vescovi. Si tratta di passi significativi, ma non può sfuggire la natura simbolica e arbitraria di queste nomine: le donne non hanno alcun diritto a partecipare ai processi decisionali ecclesiali (non essendo preti, vescovi o cardinali), possono farlo solo a condizione che questo venga loro graziosamente concesso. Se la Chiesa critica i governi e le nazioni per i fallimenti in materia di diritti umani, non ha però consapevolezza o comunque sceglie di ignorare la propria negligenza quando si tratta di parità e giustizia. Anche le nomine eccellenti operate da papa Francesco negli ultimi anni non hanno modificato in maniera sostanziale la mappa dei poteri e soprattutto non hanno prodotto un sistema di pesi e contrappesi per quanto concerne il governo della Chiesa. Come ebbe a dire la stessa McAleese in una conferenza a Roma nel 2018: «La mancata inclusione delle donne come pari ha privato la Chiesa di un discernimento fresco e innovativo; l'ha consegnata a un pensiero riciclato tra un'élite clericale maschile ermeticamente chiusa, lusingata e raramente sfidata da coloro che sono stati scelti per i lavori in processi segreti e chiusi. Ha tenuto fuori Cristo e dentro il bigottismo. Ha lasciato la Chiesa a sbattere goffamente su un'ala sola, quando Dio gliene aveva date due».

In sintesi possiamo dire che la Chiesa cattolica continua a mantenere un rapporto ambiguo e opaco con la modernità e le sue acquisizioni: da un lato è agente attivo nella lotta alla violenza, alla tratta, alle pratiche dei matrimoni forzati, ma dall’altro rifiuta di guardare le violenze e prevaricazioni al proprio interno. Invita il mondo a valorizzare le donne, ma contemporaneamente le tiene ai margini della propria organizzazione; attribuisce valore sacro alla maternità, ma non ha a cuore la salute riproduttiva delle donne e la loro possibilità di scegliere che sono requisiti imprescindibili per una maternità consapevole, gioiosa o almeno sostenibile. In questa discrasia tra ciò che si chiede al mondo e ciò che si è disposti a fare al proprio interno sta uno degli elementi di debolezza della Chiesa in questo tempo: il Re è nudo e sono le donne a doverlo dire ad alta voce.