di Carlo Bolpin  

Etty Hillesum (Middelburg, 15 gennaio 1914 - Auschwitz, 30 novembre 1943) vive ad Amsterdam con la sua famiglia della borghesia intellettuale ebraica. Dopo l’invasione tedesca dell’Olanda, rifiutò sia di partecipare alla resistenza attiva sia di mettersi in salvo, e decise di lavorare per il Consiglio ebraico nel campo di transito e smistamento di Westerbork per aiutare gli ebrei nelle baracche e per stare vicino ai genitori e al fratello, con i quali viene portata ad Auschwitz, dove muore dopo due mesi.
All’inizio resta indifferente alla realtà della guerra e alla persecuzione degli ebrei. Annota nel novembre 1942: «Ogni tanto mi chiedo come mai questa guerra con tutte le sue complicazioni, mi tocchi così poco». Ma qualche pagina più avanti scrive: «C’è la guerra, ci sono campi di concentramento. […] Camminando per le strade io so che in quella casa c’è un figlio in prigione, in quell’altra un padre preso in ostaggio. […] Se tutto questo dolore non allarga i nostri orizzonti e non ci rende più umani, liberandoci dalle piccolezze e dalle cose superflue di questa vita, è stato inutile». 

Decisiva diventa la costante consapevolezza del legame di interdipendenza tra la propria vita interiore e i drammi del mondo, il "destino di massa" degli ebrei, che vuole condividere in prima persona. Afferma che è in sé stessi che bisogna costruire la pace del mondo e che ogni atomo di odio che aggiungiamo al mondo lo rende ancora più inospitale: non vedo altre alternative, ognuno di noi deve raccogliersi e distruggere in sé stesso ciò per cui ritiene di dover distruggere gli altri» (23 settembre 1942, Diario 1941-1943). Attraverso il lavoro interiore si prepara per essere pronta “a tutto”, ma non giudica né gli ebrei che fanno altre scelte (rassegnazione o resistenza), né i carnefici: tutti subiamo il male.

L’interrogativo di fondo non è come affrontare la guerra ma è come vincere alla radice l’odio che la guerra comporta e che rende inevitabili nuove guerre.
La via riguarda ciascuno di noi che deve estirpare dentro di sé le radici del rancore e della vendetta, di tutti i sentimenti negativi che ostacolano il senso di fiducia e di gratitudine, della bellezza della vita, di accettazione anche della violenza subita, non per fatalismo rassegnato ma per trasformare le prove in energia e in capacità di bene.
La condizione per questo lavoro su di sé è la dedizione quotidiana per dare assistenza a chi soffre, a chi non ha la forza di affrontare le atrocità. Ogni momento in cui dona sollievo mantiene nel mondo l’amore e quindi la bellezza delle relazioni: la possibilità di un futuro diverso. Rassegnarsi a rispondere alla violenza con altrettanti sentimenti violenti “a buon mercato” fa perpetuare gli stessi meccanismi dei nazisti.

Il suo faticoso percorso di scavo dentro di sé acquista il carattere dell’ascesi mistica, del colloquio con Dio, in cui identifica la sua stessa vita, come un ininterrotto “ascoltare dentro” sé stessa, gli altri, Dio, ma fa esperienza che, in realtà, è Dio che ascolta sé stesso dentro la sua parte più essenziale e profonda. Nel tempo di devastazione dei cuori, che hanno seppellito ogni umanità assieme a Dio, l’unico compito valido è salvare un piccolo pezzo di Dio, un pezzetto di eternità, in sé stessi. La costruzione della pace nel mondo si ha solo se la reazione alla persecuzione nazista rinuncia a corrispondere con lo stesso sentimento e a ripagare dello stesso sentimento i persecutori, se ognuno strappa via il marciume che c'è negli altri e c'è anche in sé stesso, fino ad arrivare all’amore, se possibile. Ciascuno deve fare la propria parte, assumendo la responsabilità di cambiare sé stesso, dentro di sé e nelle relazioni, nel mondo in cui vive, sradicando le cause della guerra, che è possibile sconfiggere. La guerra nasce, infatti, dagli uomini, per quanto mostruose siano le sue dimensioni ed effetti. Capire che ogni violenza ha origine umana, proviene da ogni individuo, da “sé stessa”, rende tutto comprensibile e affrontabile. Per questo Etty non ha paura perché non subisce gli eventi come inevitabili, rifiuta le degenerazioni in misfatti che il dolore può comportare. Questo è il significato del suo atteggiamento di accettare ugualmente la vita dentro le sventure, i dolori. Non è una sopportazione interiore ma vivere in comunione con il dolore proprio e degli altri, senza esserne dominata, presa dalla paura e dal rancore. Il lavoro interiore serve a liberarsi dei propri problemi per essere pronta, nelle relazioni buone e solidali, nell’accoglienza e nell’aiuto dell’altro - con tutte le miserie che vede le sue - a scoprire le energie positive e la bellezza da espandere anche nelle condizioni di guerra e di disumanizzazione.

Per questo sono riduttive le interpretazioni che vedono solo un messaggio di lavoro interiore, un esempio di alta testimonianza, un invito alla libertà individuale che porta a una felicità intima per la capacità di uno sguardo che vede la bellezza della vita, del mondo, nonostante le tragedie collettive. Insegna quindi al singolo come mantenere libertà e pace interiore nelle relazioni private pur dentro una tragedia collettiva, ma rimane una testimonianza alla rinuncia alle armi, che non ferma la guerra e non costruisce la pace. Per quanto scritto sopra e dalla completa lettura questa è una interpretazione del tutto deviante.
È infatti chiaro, invece, il legame che la sua testimonianza personale è l’assunzione diretta e responsabile, in prima persona, di un agire collettivo nella storia. Il rifiuto della violenza interiore, nelle relazioni e tra le nazioni, i popoli. A tutti i livelli, non si può reagire alla disumanizzazione con gli stessi metodi disumanizzanti della forza violenta. Solo la forza d’animo che combatte i sentimenti e le azioni d’odio rifiutandolo, mostra che la guerra non è necessaria. Ciascuno ovviamente parte da sé, dal proprio ambito di possibili comportamenti. Ogni azione, e quindi ogni violenza e anche ogni pezzetto di bene, ha delle conseguenze. Occorre rompere il circuito della violenza, che fa della vittima un carnefice, prendendo su di sé un po' del dolore del mondo, non per moltiplicarlo con una nuova violenza.

Pensando anche alle guerre attuali, è grandemente significativo il suo modo di cercare di comprendere il carnefice, mettersi nella sua storia. Scrive il 15 marzo 1941: «Se un uomo delle SS dovesse prendermi a calci fino alla morte, io alzerei ancora gli occhi per guardarlo in viso, e mi chiederei, con un’espressione di sbalordimento misto a paura, e per puro interesse nei confronti dell’umanità: Mio Dio, ragazzo, cosa mai ti è capitato nella vita di tanto terribile da spingerti a simili azioni? Quando qualcuno mi rivolge parole di odio… non provo mai la tentazione di rispondere con l’odio, ma sprofondo improvvisamente nell’altro, in una sorta di disorientamento doloroso e al contempo interrogativo, e mi chiedo perché l’altro sia così, dimenticando me stessa». 
Chiaramente questo atteggiamento è personale, ma vediamo come oggi sarebbe indispensabile per i rapporti tra i popoli in guerra (ucraini-russi; palestinesi-israeliani) che non riescono a uscire dallo scontro tra contrapposte narrazioni che servono ai gruppi dirigenti per alimentare odio, persecuzioni, guerre.

Lei si sente “scaraventata” nel dolore umano, in uno dei tanti fronti di cui è disseminata l’Europa e non fugge. Non è una fuga “rinchiudersi” nella propria soggettività, ma a partire da questa e dalla diretta esperienza, prevede che non si uscirà dal meccanismo della ripetizione delle guerre, se non si impara a leggere il proprio tempo in sé stessi e negli altri, sui volti delle persone, sui gesti e sulle vite raccontate. E legge (23 luglio 1942) che «Dopo la guerra, due correnti attraverseranno il mondo: una corrente d’umanesimo e un’altra di odio. Allora ho saputo di nuovo che avrei preso posizione contro quell’odio».
Lo scontro tra questi due umanesimi non è concluso. Etty Hillesum chiama ciascuno di noi a decidere da che parte stare.