di Maurizio Ambrosini 

Il volontariato è un fenomeno multiforme e sfaccettato, che coinvolge milioni di persone, in Italia e nel mondo. Siamo soliti tuttavia immaginarlo come un rapporto in cui chi sta meglio, per condizione sociale, salute, mezzi economici, aiuta chi si trova per qualche ragione in una condizione di bisogno o di mancanza. Se pensiamo al rapporto tra volontariato e immigrati, il pensiero va ai cittadini solidali che dedicano tempo, risorse ed energie alle molte necessità dei cittadini stranieri, specialmente i neo-arrivati e i più fragili: scuole d’italiano, ambulatori, mense, dopo-scuola, dormitori e mille altre iniziative. Talvolta anche contrastate da indirizzi politici di chiusura ed esclusione, come nel caso emblematico dei salvataggi in mare.

Si pensa molto meno invece alle persone di origine immigrata come protagoniste attive della solidarietà, del dono e dell’aiuto verso altri, italiani compresi. A rivolgere lo sguardo verso questo volto pressoché inedito dell’altruismo ha pensato la rete dei Centri di Servizio per il Volontariato, promuovendo una ricerca realizzata in collaborazione con il Centro studi Medì-Migrazioni nel Mediterraneo di Genova.

Lo spunto iniziale dell’indagine è scaturito dalla drammatica esperienza del COVID. Per alcune settimane sono comparse sui vari organi d’informazione delle notizie inusuali: collette, raccolte di materiale sanitario e donazioni da parte di associazioni e comunità immigrate a ospedali, comuni e protezione civile italiana. I soggetti al margine della società nazionale, etichettati da una parte dell’opinione pubblica come estranei o sfruttatori opportunisti delle risorse del paese, si sono mobilitati per offrire un aiuto al paese che li ha accolti. Molti se ne sono dimenticati, ma uno degli obiettivi della ricerca è stato proprio quello di mantenere viva la memoria di questa esperienza, scandagliarne motivazioni e risvolti, esplorare altre dimensioni del dono da parte delle persone di origine immigrata. Mediante un questionario, e con il supporto della rete dei Centri di Servizio al Volontariato, l’indagine ha raccolto le risposte di 330 persone in vario modo coinvolte in pratiche solidali. Sono gli immigrati che non ci aspettiamo: prevalentemente donne (59%), istruiti (52% laureati), per la maggioranza ormai naturalizzati italiani (52%), accompagnati dalla propria famiglia (64%), con un discreto livello di occupazione stabile (42%). Questa nuova classe media ormai insediata si impegna in diverse forme di aiuto verso altri, materiali e immateriali, informali e organizzate: il 15,7% molto frequentemente, il 32,7% abbastanza spesso, il 33,1% ogni tanto.

La ricerca ha inoltre approfondito sette esperienze di associazioni e comunità guidate da immigrati e impegnate in pratiche solidali: per sostenere l’integrazione dei connazionali, per tramandare identità culturali e religiose, ma anche per partecipare attivamente alla società italiana. Al tempo del COVID e oltre. Da parte dei soggetti associativi, donare comporta anche una domanda di riconoscimento e di visibilità presso le istituzioni, a volte una legittimazione a rivendicare diritti.

Nello stesso tempo, gli immigrati socialmente impegnati chiedono più spazio anche all’interno del mondo del volontariato, che sta facendo da battistrada dell’evoluzione in senso multietnico e multireligioso della nostra società. Si profila così una nuova sfida per la solidarietà organizzata. Il volontariato vive di tensione etica e di valori democratici, cercando con le sue attività di promuovere un mondo migliore, più aperto, abitabile e dignitoso per tutti. È importante che s’interroghi sempre su come lo fa e insieme a chi.