di Carlo Bolpin

Premessa

I giudizi sulla reazione dell’Ucraina e dei paesi occidentali all’invasione da parte della Russia sono fortemente contrastanti e continuano a dividere trasversalmente le diverse famiglie culturali. Anche tra le Chiese cristiane, e all’interno di ciascuna Chiesa, profonde sono le contrapposizioni in nome della stessa fede. 
Come Associazione Esodo, in cui ugualmente esistono questi contrasti pur nell’unanime condanna dell’aggressione russa, manteniamo il nostro stile di ricerca, il metodo del confronto tra opposte posizioni. Uscendo dalle prese di posizione e dalle semplificazioni, abbiamo posto domande sui nodi etici e teologici, che riteniamo di fondo, a esperti di diverse discipline e di diverso orientamento, che continuiamo a pubblicare nel sito.

Ora cerco di fare il punto riproponendo questioni e interrogativi. Certamente non per arrivare a un accordo sul che fare, ma per tentare di condividere un linguaggio e un codice comune, un insieme di criteri e di regole utili per discernere nella situazione reale. Le valutazioni e le conclusioni sul che fare rimarranno diverse, ma almeno capiremo e “rispetteremo” le diversità: ciascuno darà ragione delle proprie posizioni in rapporto al codice comune, non secondo lo schema amico/nemico.
È ancora illusorio tentare quanto proponeva Camus nel 1948? Tra posizioni contrapposte occorre che l’una sia la “cattiva coscienza” critica dell’altra, pena - prevedeva - la disfatta dell’intera Europa pagata ancora con il sangue.

Il problema della comunicazione

Questa è la prima questione che deve profondamente preoccupare: la comunicazione. Nei quotidiani e in TV i problemi vengono per lo più affrontati in modo scandaloso, ripetendo slogan, con generalizzazioni offensive verso chi ha posizioni diverse, falsamente unificate per rendere più facile la “condanna”. Vengono ripetute citazioni, come di Simone Weil e Bonhoeffer, oppure del Papa, in modo strumentale deformando il loro pensiero. 
Riprendendo quanto scrive Italo De Sandre, occorre fare attenzione ai diversi stili di conoscenza e di comunicazione, tra riconoscimento o disprezzo, dialogo o monologo, condivisione o conflitto dei codici simbolici. 
Anche nell’agire comunicativo, vale la cultura della pace riparativa, che si fa carico dei conflitti, rifiutando atteggiamenti aggressivi e/o depressivi, o rassegnati, chiusi nei propri confini identitari. Occorre invece porre al centro la risorsa delle energie relazionali, la fiducia nelle relazioni generative nel dibattito.


L’uso delle parole

Grande attenzione va quindi data all’uso delle parole. In particolare, siamo sempre più abituati a concentrare valutazioni in formule brevi, frasi d’effetto, che riducono complessità e contraddizioni. Occorre non lasciare scontate affermazioni come “tutti vogliamo la pace”, a cui segue “ma è inevitabile la guerra”. Occorre riprendere le analisi storiche della cultura della guerra, radicata nel nostro stesso linguaggio: la guerra come forma della politica, mentre la pace è considerata una pausa. Questa tradizione è propria del ‘900, evidente nella destra ma anche nella sinistra (storica e dei movimenti del ’68) e cattolica/cristiana: la guerra come motore della storia, la violenza come inevitabile necessità per perseguire il Bene.
La maturazione delle coscienze per gli orrori delle guerre del ’900 ha portato ad una modifica del linguaggio (le guerre “umanitarie”, per la democrazia) e a narrazioni che rimuovono le violenze criminali operate da tutti gli eserciti in ogni guerra: stupri, massacri di popolazioni civili. In nome del lungo periodo di pace nell’Europa del dopoguerra, si dimenticano le tante guerre in cui l’Occidente ha continuato a essere coinvolto e protagonista, le violazioni dei diritti umani, le aggressioni e massacri contro i popoli, la loro indipendenza e contro i governi democratici.  Si tratta non di mettere tutti i regimi sullo stesso piano, ma di capire le radici delle atrocità e delle disumanizzazioni, anche quando è fatta in nome del Bene e da chi sta dalla parte “giusta”. Il linguaggio legittima ogni mezzo: “è la storia”, “è la guerra”, “è la difesa della democrazia e della libertà”. 
Attenzione alle parole significa considerare che, attraverso l’uso di un linguaggio “scontato”, passa una cultura del valore della guerra, continua la monumentalizzazione e l’esaltazione dell’eroismo e del sacrificio, si riprendono il linguaggio e le forme religiose-sacrificali dei martiri, viene dato un diverso valore alle vittime, ai diritti e alla vita dei popoli.


Criteri di valutazione etica

La premessa necessaria è di non assolutizzare la propria decisione come la scelta giusta, santa e l’altra malvagia, Ogni scelta è intrisa di negatività e contraddizioni e deve misurarsi con l’analisi delle possibili conseguenze negative nelle situazioni concrete. Ogni decisione comporta farsi carico del rischio e quindi dell’incertezza del calcolo degli effetti. Considerare la propria azione come “necessaria”, inevitabile, significa costruirsi un alibi. La scelta è sempre del minor male possibile per la realizzazione migliore possibile rispetto ai propri fini. Si deve dire che l’unico valore assoluto che diventa criterio di decisione riguarda le vittime presenti e future che la scelta comporta.

Pongo tre questioni e criteri di valutazione etica:

  • pagare in prima persona, rifiutando la furbizia: armiamoci e partite, morite voi, sacrificate le vostre famiglie e città. Fino a che punto sono disposto ad assumermi da subito tutte le conseguenze negative delle azioni, (economiche, sanitarie, alimentari…), fino al diretto intervento in guerra, per difendere il popolo ucraino e per evitargli sempre maggiori morti e distruzioni? Quanto è etico fornire armi per difendersi nella misura in cui non si rischia la propria vita?
  • Nessuna scelta è inevitabile: occorre considerare quale rapporto tra i fini valoriali identitari (libertà indipendenza, giustizia…) e i costi, ugualmente valoriali, di vite umane (civili, donne e bambini), di distruzione della realtà culturale e civile, di accumulo di violenza crudele, di odio e rancore pe le generazioni future, causa di nuove guerre.
  • Quanto viene realizzato per costruire percorsi, strutture, organismi di pace e di azione nonviolenta, di negoziazione, per prevenire le guerre e per attrezzarsi, come popolo e come Organizzazione internazionale, alla difesa nonviolenta? Quanto è stato fatto prima - e viene fatto durante - per non lasciare all’aggredito l’unica via della guerra, delle morti dei civili, delle distruzioni delle città…? Che significa, sempre dal punto di vista etico, che alcuni gruppi sociali e alcuni Paesi aumentino la propria ricchezza e il proprio potere geopolitico mentre altri peggiorano gravemente le condizioni? 


Rapporto tra fini e mezzi. Etica dei principi, etica della responsabilità

La sfida è non rassegnarsi al male anche nel rapporto tra fini e mezzi; quanto il fine buono in sé è tale da riscattare la negatività dei mezzi? Un atto ingiusto non diventa buono, porta conseguenze negative con nuove violenze. Con la guerra si persegue l’affermazione dell’etica dei principi, dei valori (anche se difenderli comporta la loro negazione: come ad es. il bombardamento di città e l’uso dell’atomica nella Seconda guerra mondiale). Se le guerre esigono la vittoria e l’annientamento del nemico in nome di propri principi e valori posti come assoluti, la pace invece è la ricerca dell’accordo, della negoziazione e del compromesso possibile, che cambi positivamente anche i rapporti con il “nemico”, che non umili le diverse parti, che valorizzi la fiducia e la cooperazione per la costruzione migliore possibile anche in tempi lunghi: significa assumere l’etica della responsabilità
La pace intesa come ordine dei rapporti secondo il diritto e non la forza, richiede intelligenza, creatività, determinazione, non passività, per costruire accordi che tutelino diritti in conflitto. Il problema è oggi se e quale paese e organismo internazionale ha la credibilità e l’autorevolezza morale per proporre giuste strutture per gestire questo ordine internazionale. Per i due terzi dell’umanità che credibilità ha oggi l’Occidente nella difesa della pace, della democrazia, della giustizia? 
Significativo è che Kant fondi la pace sul diritto internazionale che garantisce il diritto primario a migrare e quindi sul dovere dell’ospitalità, diritto che oggi viene ampiamente e brutalmente negato con politiche criminali, anche dall’Italia e dall’intera Europa patria del diritto. Scriveva, nel 1795: "Reclutare uomini usati come macchine o strumenti dello Stato per uccidere o per farli uccidere" è violazione del "Primo principio categorico della morale", cioè il dovere di rispettare la persona umana di chiunque "sempre come un fine e mai come un mezzo": "Gli eserciti e gli armamenti permanenti devono essere soppressi" (Kant, Progetto filosofico per la pace perpetua, 1795).


Diritto alla legittima difesa e guerra giusta

Nel dopoguerra i nazionalismi, anche dei governi democratici, hanno indebolito gli Organismi internazionali. Si può oggi ancora parlare di guerra giusta come mezzo per una giusta causa? Esiste la sola alternativa tra resa umanitaria e resistenza armata
Constatiamo che non c’è un'adeguata riflessione sulla differenza tra diritto alla legittima difesa e guerra giusta. Con stupore vedo la considerazione astratta sul conflitto tra i valori posti in alternativa, libertà o vita, senza la valutazione delle condizioni concrete e delle conseguenze delle diverse azioni possibili
È paradossale che la discussione sia su principi astratti e non sulla condivisione di criteri e regole etiche relative alla proporzione tra mezzi e fini, per la scelta del male minore. Se va affermata in linea di principio la legittimità della difesa armata per la propria libertà e indipendenza, vanno considerati:

  • quali organismi internazionali (o altri) sono legittimati a questa decisione;
  • quali sono le rigorose condizioni di legittimità morale; quali i criteri per la concreta misurazione della proporzione fra il fine e il male conseguente alle possibili diverse scelte, quali conseguenze nei tempi lunghi sul piano materiale, culturale, anche per le generazioni future; quale il danno causato alla popolazione civile durevole grave e certo;
  • se tutti gli altri mezzi nonviolenti per la difesa e per porre fine all’aggressione si sono rivelati impraticabili o inefficaci, se sono stati tentati e preparati;
  • se esistono fondate condizioni di successo e se il ricorso alle armi non provochi mali più gravi del male da eliminare;
  • se è giustificato lasciare la scelta della guerra senza limiti agli aggrediti o se è possibile e necessario un intervento di terzi per una guerra giusta e negoziata, al fine di evitare danni maggiori. 

Occorre inoltre valutare l’enorme potenza distruttiva nei confronti dei civili e di interi territori delle armi attuali, non solo nucleari. 
Non è inoltre possibile oggi isolare singole guerre dal contesto geopolitico complessivo, fatto da crisi energetica, alimentare, climatica, interdipendenti tra loro e con le guerre economiche per le risorse. Queste nuove condizioni esigono di uscire dalla continua logica dell’emergenza, che non vede alternative alla difesa armata contro l’aggressore nella situazione data, senza aver agito per prevenire. Non aver fatto alcuna preparazione alla difesa nonviolenta, al negoziato e anzi essersi preparati solo all’uso delle armi sempre più potenti, non può essere un alibi. 
L’analisi storica delle esperienze passate e presenti di resistenza nonviolenta si rende indispensabile, al di là di superficiali ironie, per costruire organismi popolari di difesa nonviolenta, anche in assenza di strutture internazionali.


Una radicale svolta storica

Sta prevalendo una inquietante narrazione sostenuta da intellettuali ma anche da parte di Governi europei e di politici, che avevano esaltato la definitiva vittoria del “modello occidentale” dopo la caduta del muro di Berlino e sostenuto che, attraverso la globalizzazione, la liberalizzazione dei mercati (anche finanziari), si sarebbe diffuso quel modello di vita, di economia e di democrazia liberale. Nessuno Stato avrebbe più avuto interesse a fare guerra. La pace universale sarebbe stata garantita anche senza organismi politici internazionali e mantenendo l’assetto delle Nazioni anche in Europa. 
Ora gli stessi intellettuali e politici dicono che la guerra in Ucraina, invasa dalla Russia, segna una radicale svolta storica, ha fatto “perdere l’innocenza”
Piuttosto di rivedere criticamente i presupposti delle proprie posizioni precedenti, si crea una nuova narrazione che identifica nuovi potenti nemici nei popoli e negli Stati emergenti nelle diverse parti del mondo, minaccia del “modello di vita occidentale”. Ancora una volta il Bene contro il Male, la civiltà dei valori contro la barbarie che assume volti diversi, ma unificata dalla volontà di distruggere quanto l’Occidente ha costruito nei secoli. 
Questa narrazione rende assolutamente indispensabile moltiplicare la spesa per nuovi armamenti, ritornare alla leva obbligatoria, costruire muri per difendere la Fortezza Europa, finanziando lager e criminali commercianti di “schiavi” per utilizzarli quando ci servono. Ulteriore pericolosa tendenza è che si normalizzino e legittimino in Europa forme di “democrazia illiberale, autoritaria”, di limitazione delle libertà e dei diritti.