di Daniele Menozzi 

1. Il cristiano di fronte al male nella storia o meglio dentro il male. Riprendendo Bonhoeffer, che considera l’incarnazione come legge della storia, il cristiano sa che qualsiasi azione compia rimane nel peccato. Nella storia non si pone l’alternativa astratta tra il Bene assoluto e il Male assoluto. Qualsiasi azione facciamo per compiere il bene si rimane nella situazione di peccato: comporta assumere il rischio della scelta personale nella situazione concreta con la fede nella misericordia di Cristo che ha preso su di sé il peccato e lo ha vinto. Compiere un’azione che si ritiene necessaria per raggiungere un bene, come uccidere il tiranno o partecipare alla guerra per la libertà del proprio popolo, è quindi contemporaneamente bene e male, giusto e peccato. Se è così, è una contraddizione interna alla coscienza personale del cristiano ma ha anche significati per la Chiesa e per l’etica umana collettiva? 
Se assumiamo il tema della violenza bellica come cartina di tornasole in grado di gettare luce su questa più generale (e complicata) questione etica, occorre partire da una considerazione storica.

Per lungo tempo la Chiesa non ha ammesso che, in questo ambito, la coscienza del singolo potesse decidere il comportamento ritenuto coerente con la fede cristiana: la dottrina della “guerra giusta” delegava all’autorità civile il potere di decidere in ordine alla dichiarazione di guerra. Poi, una volta che la decisione era stata presa, i credenti erano unicamente tenuti a obbedire agli ordini delle autorità politiche e militari. Ne andava della loro salvezza ultraterrena. Sia nella prima che nella seconda guerra mondiale questo è stato l’orientamento espresso dal papato e, in complesso, dall’autorità ecclesiastica. 
L’atteggiamento di papa Francesco sulla recente guerra tra Russia e Ucraina mi pare mostri un quadro diverso. Il pontefice argentino, che nel 2017 aveva affermato che la nonviolenza attiva costituisce l’unica risposta autenticamente evangelica al male della guerra, ha ribadito il superamento della dottrina della guerra giusta, ma al contempo ha ricordato il diritto alla legittima difesa. Se si vuole dare coerenza all’insieme di queste indicazioni, la via consiste proprio nel riconoscimento che, almeno in via di principio, il credente ha come obiettivo l’opposizione al male della guerra senza ricorrere al male delle armi, ma spetta poi alla coscienza del credente giudicare se, nella concreta fattispecie in cui si trova a vivere, è inevitabile o meno il suo ricorso al male delle armi per opporsi al male dell’aggressione militare.

2. Esistono criteri per il discernimento in modo da evitare i pericoli di aderire al male preso come necessario al bene (appunto la guerra ma anche ad es. il fascismo considerato “ provvidenziale” alla Chiesa) o di subire passivamente (stare a guardare)? Con stupore ho letto il dibattito, anche tra cattolici, tutto astratto, sui principi: liceità della legittima difesa o no, sui valori assoluti in contrasto (come Mancuso e altri: il valore della libertà vale di più di quello della vita, mettendo assieme suicidio assistito e legittima difesa, piano individuale e collettivo). Ma esistono valori “assoluti” nella storia, sciolti cioè dai legame tra loro e dalle relazioni con le concrete situazioni storiche, con la complessità degli interessi e dei poteri in gioco? Si devono cercare dei criteri utili nella concretezza per rendere componibili i valori e per la migliore soluzione possibile con il minor danno possibile, con attenzione alle vittime? Non occorre cercare le possibili azioni di prevenzione del male? 
Credo che questo sia il punto fondamentale. Quando, nel messaggio per la giornata mondiale della pace del 2017, Bergoglio ha presentato la non violenza attiva come l’unica risposta evangelica alla guerra, ci si è limitati ad applaudirlo. Si è dimenticato che quell'indicazione aveva implicazioni assai gravose e complesse. Comportava profondi mutamenti nello stile di vita dei credenti. Se si vuole rispondere al male della guerra senza ricorrere al male delle armi, non ci può limitare a sbandierare l’ideologia pacifista e a fare manifestazioni per la pace, per poi delegare ai parlamenti le decisioni. Occorre organizzare a livello della società civile un'efficace capacità di risposta non violenta al male della violenza bellica, in modo tale che tale risposta sia in grado di resistere a quel male e anche, se possibile, vincerlo. Se la non violenza attiva non è capace di opporsi allo scatenamento ingiusto della violenza bellica (ad esempio un’aggressione), diventa inevitabile il riconoscimento della liceità etica del ricorso all’esercizio armato del diritto alla legittima difesa. 
Lo stesso papa Francesco ha ricordato un esempio. Al tempo della guerra nello Yemen i portuali di Genova si rifiutarono di scaricare le armi da una nave, in modo da evitare il loro trasporto in zona bellica. Solo attraverso una capillare e strutturata organizzazione nelle comunità cristiane di forme non violente di resistenza alla violenza delle armi, in modo che esse siano pronte a reagire davanti all’evenienza di un'ingiusta aggressione, mostrando l’efficacia storica (oltre che la superiorità morale!) della non violenza attiva, si può rendere realizzabile l’obiettivo evangelico di rispondere al male della guerra senza ricorrere al male delle armi.  

3. Se è vero che è illusorio pensare possibile la vittoria in tempi brevi degli istinti collettivi alla violenza e alla crudeltà dell’umanità, la rassegnazione è l’unica soluzione? Non c’è una grave responsabilità in particolare delle comunità cristiane e del Magistero della Chiesa per aver agito in senso contrario trascurando totalmente l’educazione ad essere operatori di pace? 
Fin dai tempi in cui Paolo VI procedette nel 1968 all’istituzione della Giornata mondiale della pace, l’educazione alla pace ha rappresentato uno degli obiettivi che venivano proposti alla Chiesa universale. Ci sono voluti cinquant’anni perché un'università pontificia, quella lateranense, attivasse nel 2018 uno specifico corso di scienze della pace. Nel frattempo sono sorte nel mondo cattolico diverse iniziative formative. Non pretendo di averne una conoscenza esauriente. Tuttavia mi pare che le questioni nodali non siano ancora al centro di questi percorsi educativi. La questione storica – qual è il peso del passato con cui dobbiamo fare i conti? – è assai poco considerata: nelle scienze della pace la sincronia prevale sulla diacronia e così si perde lo spessore reale dei problemi che si devono affrontare. Pare che si sia dimenticato il peso che fino a ieri ha giocato nel mondo cattolico il richiamo alla guerra santa e alla guerra giusta. Senza gettare piena luce su questo passato – con le sue implicazioni: come è stata usata la Bibbia a sostegno di queste ideologie di legittimazione cristiana della violenza bellica? - temo che una reale educazione alla pace stenti a decollare.  Ma occorre anche individuare i problemi teologici centrali. Ad esempio, non vedo un'adeguata riflessione teologica sulla possibile distinzione tra guerra giusta e guerra di legittima difesa (per alcuni una guerra eticamente necessaria alla coscienza del credente, come sarebbe quella di legittima difesa, non implica un'automatica ricaduta nell’ideologia della guerra giusta); ma soprattutto non vedo una trattazione sulla questione, a mio avviso autenticamente centrale, del nesso tra nonviolenza attiva e legittima difesa. 

4. La dimensione escatologica con cui il cristiano vive nella storia relativizza quindi i Valori. In questa ottica non si può mai pensare a uno “scontro di civiltà”, tra due mondi incarnazione del Bene e del Male, ma si deve fare attenzione critica al male che è presente prima di tutto in se stesso e nella propria “parte” e puntare sul bene esistente nel “nemico”, che non è mai un mondo monolitico. Non è questa una posizione realistica che viene propria dalla dimensione escatologica che evita i modi fideistici e ideologici, ma indica la necessità dell’analisi delle situazioni?  
Storicamente l’appello alla sacralizzazione della violenza bellica verso il diverso viene proprio dall’assolutizzazione dei valori di cui ci si sente portatori. Lo hanno fatto sia le confessioni cristiane – ne è un esempio odierno il discorso del patriarca di Mosca Kirill in ordine alla guerra russa in Ucraina – ma anche le religioni secolari della politica: la religione della nazione che riemerge in settori dell’opinione pubblica (non solo ucraina!), ne è una testimonianza attuale. Proprio il fatto che il discorso cristiano sulla crociata e il discorso delle religioni della politica sulla guerra santa si sono sorrette reciprocamente – anche se con obiettivi ben diversi - nel corso di un percorso storico almeno bisecolare, dovrebbe indurre le chiese a interrompere questo circolo vizioso, nella speranza che, in tal modo, ponendo fine alla proiezione trascendente delle proprie visioni, si sostituisca la promozione del dialogo allo scontro tra le diverse identità. Ma naturalmente questa svolta ha bisogno di essere sorretta da un’adeguata impostazione culturale. Ritengo che a questo proposito sia indispensabile sia una formazione storica che una formazione teologica. Sul piano teologico la sottolineatura della dimensione escatologica del cristianesimo è certo importante in vista di una relativizzazione delle identità; sul piano storico la dimostrazione del carattere mutevole, in quanto cangiante a seconda dei tempi, di ciò che viene presentato come assoluto, è un altro apporto indispensabile.