La guerra di invasione dell'Ucraina ha messo in discussione molte certezze. Anche nella nostra area culturale tante sono le posizioni contrastanti. Nel sito abbiamo documentato analisi e riflessioni. Riteniamo necessaria una riflessione "a monte" delle contingenze su alcune questioni di fondo. Per questo abbiamo iniziato a porre a persone di diversa impostazione gli interrogativi che riteniamo preliminari.
Iniziamo con il teologo 
Severino Dianich     

Il cristiano di fronte al male nella storia o meglio dentro il male.

Riprendendo Bonhoeffer, che considera l’incarnazione come legge della storia, il cristiano sa che qualsiasi azione compia rimane nel peccato. Nella storia non si pone l’alternativa astratta tra il Bene assoluto e il Male assoluto.

Qualsiasi azione facciamo per compiere il bene si rimane nella situazione di peccato: comporta assumere il rischio della scelta personale nella situazione concreta con la fede nella misericordia di Cristo che ha preso su di sé il peccato e lo ha vinto. Compiere un'azione che si ritiene necessaria per raggiungere un bene, come uccidere il tiranno o partecipare alla guerra per la libertà del proprio popolo, è quindi contemporaneamente bene e male, giusto e peccato. Se è così, è una contraddizione interna alla coscienza personale del cristiano ma ha anche significati per la Chiesa e per l’etica umana collettiva?
Senza entrare in maniera specifica nel pensiero di Bonhoeffer, mi richiamerei a Lutero, il quale racconta dell’entusiasmo da cui fu preso quando, commentando all’università di Wittenberg la lettera ai Romani, intorno al 1515, scoprì che la nostra salvezza non dipende dai nostri meriti, ma solo dalla grazia di Dio, il quale ci accoglie come fossimo giusti, anche se siamo peccatori. Solo così egli si sentì liberato dall’angoscia di una santità impossibile da raggiungere. La tradizione cattolica, a dire il vero, è più ottimista, non condivide l’antropologia radicalmente negativa di Lutero e riconosce all’uomo la capacità di fare anche, con la grazia di Dio, dell’autentico bene. Ciò nonostante, quella del Riformatore è una lezione di fede che i cattolici hanno bisogno di assimilare con più partecipazione, per evitare la presunzione del sedicente cristiano perfetto, pronto a condannare chi cristiano non è. Non c’è uomo senza peccato, come non c’è malvagità umana nella quale non si nascondano briciole di bene.
Non credo però che questa convinzione di fede possa dare un qualche apporto al problema della scelta del minor male, nei casi in cui pare si sia in presenza di un’alternativa secca. In questo caso, la risposta al Che fare? ha bisogno dell’apporto di considerazioni specifiche, quali per esempio, la misurazione della proporzione fra il male dei due corni del dilemma, delle conseguenze della propria scelta nei tempi lunghi, della valutazione non solo della pesantezza del male sul piano materiale, ma anche del suo rimbalzo sull’animo umano, la sua spiritualità, la mentalità comune e il costume diffuso.

Esistono criteri per il discernimento in modo da evitare i pericoli di aderire al male preso come necessario al bene (appunto la guerra ma anche ad es. il fascismo considerato “provvidenziale” alla Chiesa) o di subire passivamente (stare a guardare)? Con stupore ho letto il dibattito, anche tra cattolici, tutto astratto, sui principi: liceità della legittima difesa o no, sui valori assoluti in contrasto (come Mancuso e altri: il valore della libertà vale di più di quello della vita, mettendo assieme suicidio assistito e legittima difesa, piano individuale e collettivo). Ma esistono valori “assoluti” nella storia, sciolti cioè dai legame tra loro e dalle relazioni con le concrete situazioni storiche, con la complessità degli interessi e dei poteri in gioco? Si devono cercare dei criteri utili nella concretezza per rendere componibili i valori e per la migliore soluzione possibile con il minor danno possibile, con attenzione alle vittime? Non occorre cercare le possibili azioni di prevenzione del male?

Condivido lo stupore per l’astrattismo con cui si è discettato, nella drammatica evenienza della guerra in Ucraina, sulla legittimità della difesa armata. Il Catechismo della Chiesa cattolica la sostiene, ma sottoponendola, con una bella dose di buon senso pratico,  «a rigorose condizioni di legittimità morale», cioè che «il danno causato dall'aggressore alla nazione o alla comunità delle nazioni sia durevole, grave e certo; che tutti gli altri mezzi per porvi fine si siano rivelati impraticabili o inefficaci; che ci siano fondate condizioni di successo; che il ricorso alle armi non provochi mali e disordini più gravi del male da eliminare». Il testo stesso avanza una riserva di carattere generale a proposito di quest’ultima condizione, per la quale si nota che «nella valutazione di questa condizione ha un grandissimo peso la potenza dei moderni mezzi di distruzione». In quanto poi alla terza delle condizioni enunciate, non c’è chi non veda, a sei mesi dall’invasione russa dell’Ucraina, che le «fondate condizioni di successo» avanzate all’inizio, non stanno affatto risultando “ben fondate”.


Se è vero che è illusorio pensare possibile la vittoria in tempi brevi degli istinti collettivi alla violenza e alla crudeltà dell’umanità, la rassegnazione è l’unica soluzione? Non c’è una grave responsabilità in particolare delle comunità cristiane e del Magistero della Chiesa per aver agito in senso contrario trascurando totalmente l’educazione a essere operatori di pace?

Non è compito della Chiesa scrivere e pubblicare libri di storia, mentre qui sta una delle maggiori responsabilità di un’insufficiente formazione alla pace nella pubblica istruzione. Dalla presentazione dei poemi epici del mondo antico all’esaltazione dei grandi condottieri, da Alessandro Magno e Giulio Cesare a Napoleone. Seguono i social e tutta una trionfante pubblicistica di esaltazione della violenza. Se lungo l’Ottocento non sono mancati settori del mondo cattolico schierati a fianco delle conquiste coloniali, il responsabile di una cultura di guerra non va certo individuato nel magistero cattolico. Basti citare poche righe di Benedetto XVI, il quale nel 1919 scriveva, rivolgendosi ai missionari: «Quanto sarebbe deplorevole se vi fossero missionari i quali, dimentichi della propria dignità, pensassero più alla loro patria terrestre che a quella celeste; e fossero preoccupati di dilatarne la potenza e la gloria al di sopra di tutte le cose. Sarebbe questa una delle più tristi piaghe dell’apostolato… Non dimenticando mai che (il missionario) non è un inviato della sua patria, … ognuno può indubbiamente riconoscere in lui un ministro di quella religione che, abbracciando tutti gli uomini che adorano Dio in spirito e verità, non è straniera a nessuna nazione, e «dove non c’è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, Barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo in tutti» (Maximum illud, 30 nov 1919). E’ vero, invece, che nell’arco degli ultimi cent’anni, è difficile trovare un’altra agenzia di dimensione mondiale che abbia promosso di più una cultura di pace.


La dimensione escatologica con cui il cristiano vive nella storia relativizza quindi i Valori. In questa ottica non si può mai pensare a uno “scontro di civiltà”, tra due mondi incarnazione del Bene e del Male, ma si deve fare attenzione critica al male che è presente prima di tutto in se stesso e nella propria “parte” e puntare sul bene esistente nel “nemico”, che non è mai un mondo monolitico. Non è questa una posizione realistica che viene propria dalla dimensione escatologica che evita i modi fideistici e ideologici, ma indica la necessità dell’analisi delle situazioni?

La visione cristiana del mondo e della storia non coltiva illusioni. Sono state le ideologie moderne a esaltare le «magnifiche sorti e progressive» del mondo moderno.
E’ solo l’amore e la bontà di Dio che salva l’uomo dal male, che egli stesso provoca nel decorso della vicenda umana, e il compimento della salvezza avverrà solo alla fine della storia, con la risurrezione e una nuova creazione. Allo stesso tempo, questa grande speranza di un destino buono del mondo e della storia alimenta e sostiene le piccole speranze, di cui ogni giorno nutriamo la nostra vita e gli impegni del nostro lavoro, da quando al mattino ci alziamo dal letto. La speranza per l’oggi rischia di svanire a ogni fallimento, ma il cristiano la tiene viva nutrendola con la fede nella speranza ultima della Gerusalemme che scenderà dal cielo.
In quanto allo scontro delle civiltà, è un’ipotesi che ragionevolmente si può sempre fare: come è accaduto nel passato, può sempre accadere. Per il cristiano è dovere non promuoverlo e non rendersene complice, in nome del rispetto di ogni persona umana e di tutte le culture diverse, del riconoscimento che gli uomini, in qualsiasi civiltà vivano, sono nella stessa misura capaci di bene di male e in nome dell’ideale della riconciliazione e della pace, dono di grazia del Cristo risorto.