di Giorgio Scatto

«Dio, non startene muto,
non restare in silenzio e inerte, o Dio».
(Sal 83,2)

In questo lungo tempo, inatteso e pericoloso, è come se fossimo entrati in una interminabile veglia notturna, nella quale anche Dio era silenzioso e assente.

Solo ora, dopo mesi, incominciamo a vedere i primi segni dell'alba, contemplando l'esplosione della natura e il muoversi frenetico delle persone. Bisogna guadagnare il tempo e le parole perdute. Tutto ritorna in fretta come prima? Non penso che debba accadere questo. O almeno lo spero. 
Il giorno di Pentecoste, celebrando in San Pietro, papa Francesco ci ha ammonito: «Peggio di questa crisi c'è solo il dramma di sprecarla». 
Tornare alla situazione di prima, senza discernere il tempo presente, ciò che abbiamo vissuto, ciò che rimane e ciò che va lasciato, sarebbe il vero dramma dei nostri giorni. C'è allora un invito alla vigilanza e al silenzio, aspettando che sia Dio a parlare. Che cos'è per il cristiano il vigilare se non l'attendere, scrutare nella notte, prestare attenzione al proprio tempo? Vigilare è coltivare l'arte del silenzio, perché sia un altro a raggiungerci con la sua voce.
Del profeta Elia il Siracide dice che diventò un uomo la cui parola «bruciava come fiaccola» (Sir 48,1). Tuttavia egli non colse la potenza della parola nel vento impetuoso, nel terremoto che spaccava le rocce o nel fuoco divorante. Elia sentì il passaggio di Dio in un «sottile suono di silenzio» (1Re 19,12). Certi silenzi risuonano più di cento tuoni. Sono silenzi che parlano; non silenzio freddo, triste, atono, ma un silenzio in cui tutte le parole si compendiano e si compenetrano. Spesso le parole ci muoiono sulle labbra, appena pronunciate. Vengono sepolte sotto altre parole, non hanno il tempo di crescere e di portare frutto.

In questi mesi di dramma collettivo, in cui la domanda sulla malattia, sulla vita e sulla morte, sul dolore e sulla precarietà dell'esistenza spesso non hanno trovato parole sapienti e risposte adeguate, anche da parte dei pastori, ritorna con forza il tema del primato dell'ascolto della Parola sulle nostre parole, dell'annuncio del Vangelo, fondamento della nostre fede, su ciò che è pure utile, ma è secondario. 
Il mondo che esce dalla pandemia si aspetta dalla Chiesa non delle parole di semplice incoraggiamento ad andare avanti, ma delle ragioni che aiutino ad accettare e vivere con maturità quello che sta accadendo; ha urgente necessità di trovare dei motivi seri per sperare, ha bisogno di qualcuno capace di aprirgli orizzonti diversi e veri per vivere e per morire. Io credo, allora, che abbiamo bisogno, anzitutto, di imparare il silenzio, quello che ci permette di ascoltare il fremito della creazione e il suo disperato grido di aiuto; il silenzio che ci permette di udire il lamento di tante donne e uomini che sale dal ventre della terra e dai sotterranei della storia. Un silenzio che ci apre gli occhi e il cuore per contemplare, dopo tanto frastuono di parole udite in questi mesi, la Parola della Risurrezione, forza creatrice che dà vita a una società nuova e più giusta. Impariamo, nel silenzio, a vincere la cultura della morte, che ci sovrasta e ci opprime, e che dilaga nella rassegnazione alla violenza, alle dittature, alle discriminazioni razziali, alla guerra. Il Dio che parla è il Dio della vita e della libertà. Agisce sempre a favore dell'uomo, non contro l'uomo. «Ammutolito, non apro bocca, perché sei tu che agisci» (Salmo 39,10).

All'alba di un nuovo giorno, nutriti di silenzio, lasciamo che Dio agisca e gridiamo: «La morte è stata ingoiata nella vittoria. Dov'è, o morte, la tua vittoria?» (1Cor 15,54-55).