di Giannino Piana
Il capitalismo (o il neo capitalismo) è davvero la causa fondamentale dell’odierna crisi ambientale o si tratta di un pregiudizio ideologico? Altre sono le cause?
Il capitalismo o meglio il neocapitalismo, che si distingue dal primo sia per l’affermarsi di un mercato unico mondiale, conseguenza dell’interdipendenza tra i popoli provocata dalla globalizzazione, sia per l’assegnazione del primato all’economia finanziaria da cui l’economia produttiva dipende, è senz’altro il fattore principale della grave crisi ambientale odierna.
Non si tratta di un pregiudizio ideologico, ma dell’influenza reale e assolutamente determinante da esso esercitata sugli sviluppi del rapporto dell’uomo con la natura considerata come semplice contenitore di risorse da sfruttare, e non invece come habitat da cui l’uomo può (deve) ricavare ciò che gli è necessario per il proprio sostentamento materiale e per la propria crescita spirituale. La ragione di fondo di questa incidenza va ascritta all’adesione, in termini esclusivi, alla logica quantitativa; una logica che prescinde del tutto dalla qualità dei prodotti favorendo, specialmente in campo agricolo e animale, la riduzione delle specie, e che si muove nell’ottica consumista dell’”usa e getta”, alimentando in termini smisurati il consumo di energie, molte delle quali non rinnovabili, e dando vita a forme sempre più accentuate di inquinamento dei beni essenziali per la vita. La “natura”, lungi dall’essere rispettata nella sua identità, viene considerata come semplice strumento di cui l’uomo può fare l’uso che vuole senza doversi porre alcuna limitazione.
Non ci si dimentica forse degli effetti positivi di tale sistema che ha concorso a far crescere tanti Paesi sottosviluppati, migliorandone non solo le condizioni economiche, ma anche sociali, sanitarie e scolastiche?
Non vi è dubbio che anche il neocapitalismo – come del resto ogni sistema messo in campo dall’uomo – contenga elementi positivi. Non si può (e non si deve) essere manichei; occorre valutare per ogni processo gli effetti positivi e negativi, verificando la prevalenza degli uni o degli altri. Il capitalismo ha senz’altro consentito ad alcuni Paesi di uscire da uno stato di sottosviluppo; anche se occorre chiedersi a quali condizioni! Tuttavia il giudizio complessivo su di esso (e in misura ancora maggiore sul neocapitalismo) non può che essere radicalmente negativo. La crescita della ricchezza a livello mondiale è avvenuta a scapito della sua equa distribuzione. Anzi ciò che si è verificato è, da un lato, l’accentuarsi delle sperequazioni tra i popoli, le classi sociali, i sessi – si pensi alla gravità assunta dalla questione femminile – e le nuove generazioni, nonché l’incremento di vecchie e nuove povertà; e, dall’altro, l’avanzare a un ritmo accelerato della devastazione dell’ambiente. Al neocapitalismo vanno poi ascritte altre gravi conseguenze, in primis l’affermarsi di un mercato senza regole, sia per l’impotenza dei singoli Stati a intervenire, scavalcando i processi in atto le frontiere nazionali, sia per la carenza di autorità mondiali in grado per la loro autorevolezza di incidere efficacemente su tali processi.
Non vi è, secondo te, il rischio che questa demonizzazione nasca dalla presunzione propria di molti cattolici di andare alla ricerca di un “modello astratto”, assunto come ideale, con la conseguenza di non saper fare i conti con l’ambivalenza e la complessità della realtà ed evadendo pertanto da essa? E non si tiene forse insufficientemente in conto il peso della politica?
Il rischio senz’altro esiste. L’utopismo, cioè il “sogno a occhi chiusi”, è una tentazione ricorrente. La lotta contro questa tentazione non deve significare rifiuto della coscienza utopica, di quella tensione ideale, che è una prospettiva da non rimuovere, poiché da essa nasce la possibilità di avere una “visione”, un progetto di cambiamento. Ma la coscienza utopica ha bisogno di misurarsi con scelte ideologiche – l’odierno abbandono dell’ideologia è pericoloso, perché fa spazio all’affermarsi di un pragmatismo che finisce per mantenere le cose come sono – capaci di mediare l’ideale con la realtà, di giungere a una compromissione con quest’ultima tale da rendere possibile dare concretezza all’ideale, senza venir meno al suo costante perseguimento. Non è questo, d’altronde, il compito della politica? Non è essa l’arte del “possibile”, che sta tra l’ideale e il reale, e che deve mantenere in equilibrio, sia pure dinamico, i due poli, conferendo in tal modo efficacia alla propria azione? Purtroppo la politica fatica oggi a mantenersi fedele al proprio ruolo di guida della polis, non solo per la ragione già ricordata, l’impotenza di fronte a processi che scavalcano i confini degli Statio-nazione, ma anche (e soprattutto) perché soggetta al condizionamento di poteri forti – quello economico in primo luogo – che rischiano (il rischio non è solo ipotetico) di ridurla a una loro variabile dipendente. La via di uscita non può che essere la formazione di aggregazioni sempre più ampie di popoli e nazioni – si pensi all’Unione europea – che non si limitino a ricercare convergenze in campo economico, ma che abbiano un progetto di società comune.
I nuovi modelli di sviluppo sostenibile non sono in realtà sorretti da un sistema capitalista? La “transazione ecologica” di cui oggi si parla non è in realtà legata al mercato e alle tecnologie fornite dal capitalismo?
Non credo che le cose stiano così. Le proposte di sviluppo ecosostenibile ed equisostenibile – per stare al binomio inscindibile questione ecologica questione sociale che papa Francesco suggerisce –, anche quelle che non rinunciano alla crescita della produttività, introducono, accanto ai parametri quantitativi, un’attenzione privilegiata alle dinamiche relazionali e alla qualità della vita. E’ vero che il mercato continua a essere presente nelle proposte formulate a proposito della “transazione ecologica”. Ma intanto occorre distinguere “economia di mercato” da “economia neocapitalista”; non esiste tra le due un legame necessario. L’economia di mercato può sussistere anche al di fuori del sistema capitalista. E poi c’è mercato e mercato. C’è un mercato caratterizzato da un liberismo selvaggio, che attenta radicalmente alla libertà di iniziativa, perché provoca il costituirsi di trust, impedendo che si affacci a esso un numero sempre più ampio di soggetti – nulla è meno libero di un mercato liberista – e c’è un mercato con regole precise che limitano la possibilità di accumulo della ricchezza nelle mani di pochi e pongono un freno decisivo alla concorrenza. Quanto alle tecnologie, il problema è l’uso che se ne fa.
Ma la questione di fondo non è forse, come ripetutamente ci ricorda papa Francesco, l’adozione di nuovi stili di vita e di nuove forme di consumo? Che cosa possono fare, al riguardo, le comunità cristiane, le parrocchie e le associazioni?
Il cambiamento degli stili di vita e l’abbandono di forme di consumo del tutto superflue, nonché l’attenzione a evitare inutili sprechi di energie sono senz’altro elementi importanti. La loro assenza rende impossibili anche gli interventi strutturali di modifica del sistema, che hanno bisogno, per venire attuati, del supporto del consenso popolare. Papa Francesco non manca di ricordarlo, sollecitando una vera conversione di mentalità e di costume nel segno della sobrietà nell’uso dei beni della terra e della loro equa distribuzione. Tutto questo diviene possibile solo a condizione che si faccia spazio a un’azione educativa a vasto raggio, tale da coinvolgere i diversi settori della popolazione. Le comunità cristiane sono anzitutto chiamate a esercitare questo compito non solo a parole, ma dando l’esempio concreto, attraverso le proprie scelte, di come si possono vivere i valori ricordati.