di Giannino Piana
Il ritorno della politica “al centro” con il governo Draghi è per i cattolici, secondo Luca Diotallevi (cfr. Avvenire, 20 febbraio, p. 3) “una provocazione alla responsabilità politica”. Che cosa si vuol dire con questo? Si auspica un ritorno al “partito cattolico” o si avanza la proposta di una forma di collateralismo, anche senza una specifica formazione politica?
Non è facile rispondere. Al di là di che cosa pensa Luca Diotallevi non si può negare che negli ultimi anni si sono affacciate diverse ipotesi di presenza dei cattolici in politica, spesso direttamente sostenute dalla Conferenza Episcopale italiana. La fine della Democrazia cristiana agli inizi degli anni ’90 del secolo scorso per le note vicende di Tangentopoli ha spinto il mondo cattolico a ricercare nuove forme di presenza.
Il primo tentativo autorevole è stato quello intrapreso dal card. Ruini in campo prepolitico con la proposta del “progetto culturale”, che avrebbe dovuto, nelle intenzioni di chi lo ha promosso, sostituire la presenza partitica con un intervento più radicale sull’intera società civile. Un progetto dunque capace di farsi portatore di un ethos culturale, destinato a permeare dei suoi valori tutto il tessuto sociale. L’azione politica diretta avrebbe dovuto essere assicurata, nel contempo, dalla convergenza trasversale dei cattolici presenti nelle diverse aree ideologiche e nei vari partiti, di fronte a questioni, di volta in volta emergenti, riguardanti tematiche particolari, il cui approccio esigeva che si prestasse attenzione al quadro valoriale proposto dalla Chiesa. L’esaurimento della proposta culturale e il mancato decollo della convergenza auspicata, nonché il sempre maggiore dirottamento delle energie nell’ambito del volontariato, ha dato a molti la sensazione di un sostanziale abbandono da parte dei cattolici della politica ed è questa la ragione dell’insistenza con cui si sollecita oggi, a livello gerarchico, l’assunzione di una nuova responsabilità. La via indicata in termini privilegiati non sembra essere quella della ricostituzione di un partito cattolico ritenuta anacronistica – anche se non mancano segnali che sembrano andare in questa direzione –, ma quella di dare vita a forme di partecipazione che, partendo dalle amministrazioni locali, dispieghino la loro influenza sulla realtà del Paese senza fare capo a una specifica forza politica.
Il quotidiano cattolico Avvenire, organo ufficiale della Conferenza episcopale italiana (CEI), ha di recente elencato tra gli uomini che compongono la compagine governativa di Draghi diversi “cattolici” in grado di assicurare su alcuni temi cruciali il rispetto dei valori propri della tradizione cattolica. Quali sono i temi ai quali si fa riferimento? E quali i criteri in base ai quali è possibile definire “cattolico” un governante?
I temi ai quali la gerarchia allude sono i temi definiti “eticamente sensibili” i quali chiamano in causa i cosiddetti “principi non negoziabili” spesso evocati negli interventi di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. Si tratta di questioni che attengono alla sfera della sessualità, del matrimonio e della famiglia e al nuovo capitolo della morale, quello della bioetica, dedicato a questioni inedite emerse a seguito dell’enorme e rapido progresso scientifico-tecnologico intervenuto in campo biomedico. L’attenzione privilegiata a questi temi è iniziata negli anni ’70 del secolo scorso, quando cioè anche in Italia (come del resto in gran parte d’Europa) si è assistito a una serie di interventi legislativi volti a normare situazioni di fatto che, lasciate a se stesse, finivano per avere pesanti ricadute negative sulla vita delle persone e dell’intera collettività. È sufficiente ricordare qui le dure prese di posizioni della gerarchia cattolica in occasione dei due referendum sul divorzio e sull’aborto – referendum che hanno evidenziato con chiarezza i mutamenti socioculturali intervenuti nella società italiana – e, in tempi più recenti, la difesa della vita, dalla fase iniziale a quella terminale, perciò il divieto del ricorso alla procreazione medicalmente assistita – non si può dimenticare che, in occasione del referendum su tale questione il card. Ruini, allora Presidente della Cei, ha invitato i cattolici ad astenersi dal voto per impedire il raggiungimento del quorum necessario – e all’eutanasia. La risposta al quesito circa i criteri in base ai quali definire “cattolico” un governante è strettamente legata all’importanza assegnata dalla gerarchia alle questioni accennate, e pertanto alla coerenza con le direttive magisteriali in tali ambiti. Poca rilevanza viene data alla professionalità e a valori che dovrebbero occupare un ruolo centrale nell’azione politica, quali la tutela della democrazia e delle libertà personali e la pratica della giustizia, dell’equità e della solidarietà nella lotta contro le diseguaglianze tra i popoli, le classi sociali, le generazioni e l’appartenenza sessuale e di genere: si pensi soltanto, a proposito di quest’ultima forma di diseguaglianza, alla presenza delle donne nel mondo del lavoro, con possibilità ridotte sia a livello di ingresso che di retribuzione economica. Tutto questo costituisce un grave limite che non può essere ignorato!
È possibile individuare una specificità nella modalità di presenza dei cattolici nell’esercizio del ruolo politico e governativo? Quali la possibilità e i limiti della mediazione?
Una delle conquiste più importanti del Concilio è il ricupero dell’autonomia delle realtà terrestri, dunque anche della politica che a tale sfera di attività appartiene. La Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et Spes lo afferma senza alcuna esitazione. Questo riconoscimento si traduce (e non può che tradursi) nell’ammissione che la politica ha finalità e leggi proprie che vanno individuate dall’interno senza il ricorso a condizionamenti esterni. Certo anch’essa, come ogni altra attività umana, è soggetta al giudizio dell’etica. Ma si tratta anzitutto di un’etica fondata su valori che la ragione può da sola farci conoscere, dunque su un’etica laica, la cui traduzione normativa va ricercata nel rapporto tra valori civili fondanti e situazioni storiche che cambiano. Esiste perciò una base comune attorno a cui convergere tra credenti e non credenti. Ci si può tuttavia chiedere: si dà un ruolo specifico della fede nella conquista di tali valori e nella determinazione del loro contenuto? È fuori dubbio che dalla fede discende un orizzonte di senso della vita e una visione dell’uomo, un’antropologia che ha nella persona di Cristo la sua perfetta sintesi, e che quest’ultima non può non costituire un aiuto a scoprire i valori umani e una sollecitazione ad approfondirne e radicalizzarne i contenuti. Questo tuttavia nel pieno rispetto della loro identità razionale e ricercandone l’attualizzazione nel dialogo con tutti gli uomini di buona volontà. In questo lavoro che implica, come ho accennato, il confronto con la situazione storico-sociale e culturale, si esige pertanto la capacità di dare vita a una costante mediazione. La politica non è del resto l’“arte del possibile”, che sta tra l’ideale e la realtà? Il compromesso dunque esigito dalla presenza di posizioni diverse e non concepito in senso deteriore come svendita dei valori ma in senso nobile come compromissione con la realtà, è un suo elemento costitutivo dal quale non è possibile prescindere. Il limite alla mediazione è difficile da definire a priori, ma esistono senz’altro scelte eticamente inaccettabili, per la cui determinazione è necessario chiamare in causa il sistema valoriale nel suo insieme e nella gerarchia in cui i valori vengono collocati.
Come interpretare i messaggi di papa Francesco (Fratelli tutti e non solo) su tali questioni?
Ciò che colpisce nel magistero di papa Francesco su tali questioni è la priorità assegnata ai valori sociali, in particolare alla giustizia e alla solidarietà da vivere in un’ottica universalistica nell’ambito di un mondo globalizzato come l’attuale. Questo non significa che il papa ignori o emargini i valori cui il magistero precedente ha dato particolare importanza, in primo luogo quello della vita. La sua preoccupazione prevalente è tuttavia quella di sollecitare la politica a fare propri come criteri fondamentali di conduzione la scelta preferenziale dei poveri e il principio della destinazione universale dei beni. L’insistenza con la quale egli denuncia la “società dello scarto” e la “cultura dell’indifferenza” e la sottolineatura dello stretto intreccio esistente tra questione ecologica e questione sociale sono la testimonianza della necessità di un cambio radicale di paradigma che papa Francesco non esita a segnalare con forza come ineludibile.