di Giannino Piana   

La revisione del modo di essere chiesa ha (e non può che avere) implicanze dirette sulle varie componenti del tessuto ecclesiale, in particolare sui carismi e sui ministeri che vanno sempre più ripensati in un’ottica comunitaria e con l’obiettivo di far crescere partecipazione e corresponsabilità. La comunità cristiana non può  essere concepita come una massa di individui, che ricercano ciascuno la soddisfazione del proprio bisogno religioso, ma come una realtà viva e articolata in cui ogni fedele è chiamato a fornire il proprio insostituibile apporto all’edificazione della casa comune.

Nel contesto di questa visione di chiesa va inserito anche il ruolo del prete, che riveste una rilevante  importanza in ragione del particolare servizio che è chiamato a svolgere. L’ecclesiologia del Vaticano II, con l’introduzione delle due grandi categorie di “popolo di Dio” e di “comunione” ha segnato con chiarezza l’ambito e la modalità di esercizio di tale servizio, mettendo l’accento sulla necessità di inscriverlo all’interno (non dunque al di fuori o al di sopra) della comunità  e di finalizzarlo alla sua crescita.

Le difficoltà attuali

  1. La perdita di autorità

 Le due categorie accennate sono al centro della costituzione Lumen gentium, dove l’aver anteposto il capitolo sul “popolo di Dio” a quello dedicato alla gerarchia – una vera “rivoluzione copernicana” secondo alcuni – ha determinato il passaggio da una concezione verticistica di chiesa a una concezione di chiesa “dal basso”, radicata nel sacerdozio comune dei fedeli che scaturisce dal battesimo; mentre a sua volta, l’aver messo al centro della riflessione il concetto di  “comunione” ha reso trasparente l’esigenza di sviluppare una forma di unità differenziata e pluralistica, frutto del contributo responsabile di tutti i fedeli. Una chiesa dunque non più egemonizzata da una élite di eletti, la ecclesia docens,  e costituita da una pletora assai più numerosa di fedeli, la ecclesia discens, il cui compito è quello di sottostare agli orientamenti dottrinali e alle direttive pastorali dettate dai primi.
Le difficoltà ad accettare di fatto questa visione da parte di chi riveste un ruolo gerarchico – dal papa ai vescovi e ai preti – dopo secoli di clericalismo si è ben presto manifestata. Alla perdita del ruolo sociale assai rilevante nell’ambito di una società chiusa come quella preindustriale si è accompagnata, grazie alle scelte fatte dal Concilio, il venir meno di un supporto istituzionale, che garantiva al prete l’attribuzione di una indiscussa autorità dalla quale ricavava autoaffermazione, gratificazione e sicurezza. L’abbandono dei ruoli del passato ha dunque lasciato il posto all’esercizio di una funzione, che oltre a sminuirne il potere decisionale, esige l’acquisizione di particolari attitudini, quali l’autorevolezza personale, la capacità di dialogo e lo spirito di servizio.           

  1. Le conseguenze della secolarizzazione

A questo si devono aggiungere i problemi che vengono dai cambiamenti socioculturali in corso, provocati in modo speciale dal processo di secolarizzazione, che ha raggiunto negli ultimi decenni livelli sempre più accentuati, con la conseguenza di una forte attenuazione – qualche volta persino di una radicale scomparsa (si pensi a una fascia estesa del mondo giovanile) – della domanda religiosa, e dunque una maggiore difficoltà a dare efficacia all’annuncio evangelico, i cui valori sono peraltro in controtendenza rispetto alle logiche individualiste dominanti, che esaltano la ricchezza, il successo e il potere quali criteri di valutazione del comportamento umano. Questo indubbio stato di impotenza genera in molti sacerdoti un senso di frustrazione, al quale alcuni reagiscono cercando di ricuperare in modo illusorio il potere del passato attraverso la messa in atto di atteggiamenti autoritari, che finiscono per accrescere la distanza dai fedeli; altri ricercando compensazioni affettive clandestine che li sottraggano alla condizione di isolamento in cui sono precipitati, con ripercussioni negative sull’esercizio del ministero; altri, infine, abbarbicandosi a tradizioni devozionali del passato divenute anacronistiche: celebrazioni liturgiche fastose in cui a contare non è tanto il messaggio che si trasmette o il coinvolgimento partecipativo dei fedeli quanto la ricerca di un estetismo del tutto formale o ritorno folkloristico all’uso della talare, che denuncia un bisogno di distinzione dagli altri espressione della volontà di difendersi dal mondo circostante, considerato malvagio, alla ricerca del perseguimento  di una falsa sicurezza.

  1. Quali candidati e quale iter formativo

Altri problemi nascono poi dai soggetti che scelgono di accedere al ministero sacerdotale e dall’iter formativo che viene loro proposto. Uno degli effetti della secolarizzazione è stato la drastica riduzione, almeno in Occidente, del numero dei sacerdoti con la necessità di affidare la cura di più parrocchie allo stesso sacerdote o di favorire l’istituirsi della compresenza di più sacerdoti in una parrocchia centrale della zona, dove fare vita comune e fornire il proprio servizio a più comunità. Questo non manca di creare situazioni di disagio non solo nella popolazione abituata ad avere il proprio parroco residente sul territorio, ma anche negli stessi sacerdoti educati per molto tempo a vivere da soli, e dunque incapaci di adattarsi alla vita comune.
Senza dimenticare un fatto singolare riguardante la provenienza di una parte piuttosto consistente di clero. Mentre infatti fino agli anni 70-80 del secolo scorso le diocesi italiane inviavano sacerdoti in vari Paesi del Terzo mondo, specialmente in Africa e in America Latina – è sufficiente ricordare qui l’esperienza dei preti Fidei donum – oggi siamo in presenza di una radicale inversione di tendenza; ad esercitare il ministero da noi sono sempre più sacerdoti provenienti dal Terzo mondo, con la possibilità di un arricchente scambio culturale, ma anche con le inevitabili difficoltà di inserimento in un contesto assai diverso da quello di partenza.
Quanto all’iter formativo si deve riconoscere che molte cose sono cambiate rispetto al passato in cui a prevalere era il modello tridentino. Il Concilio ha fornito al riguardo indicazioni preziose, che hanno trovato riscontro in interventi della Santa Sede e delle Conferenze episcopali, quella italiana in primis: da una maggiore attenzione alla maturità umana alla coltivazione dello spirito di servizio; dal  superamento di una proposta rigidamente dogmatica a una visione del cristianesimo più capace di confrontarsi con le correnti culturali dell’attuale momento storico, fino all’offerta di una spiritualità più radicata nel vivo dell’azione pastorale propria del ministero sacerdotale. Non mancano tuttavia, anche a questo riguardo, oggettive difficoltà legate al fatto che molti candidati al sacerdozio provengono dalle fila dei movimenti, con il rischio (non infrequente) che tendano ad impostare la loro attività pastorale sulla base della spiritualità del movimento, non tenendo in considerazione la varietà delle esigenze proprie delle persone che compongono la comunità parrocchiale.

Un ministero di comunione

  1. Le funzioni da esercitare

Le difficoltà segnalate non devono rappresentare un ostacolo insormontabile all’esercizio di un ministero, che conserva ancor oggi un ruolo imprescindibile per la vita della comunità cristiana. Deve diventare piuttosto stimolo a ridefinirne le finalità e le modalità di esercizio. La forte riduzione del numero dei sacerdoti, la provenienza di alcuni da aree geografiche lontane e la stessa nuova e variegata composizione delle persone che accedono a tale ministero possono rappresentare una occasione opportuna per uscire da una situazione perpetuatasi per molto tempo nella quale al prete veniva assegnata, oltre ad un ruolo di comando, una miriade di compiti che nulla avevano a che fare con la missione cui è chiamato e che anzi finivano talora per sottrarlo ad essa.
E’ allora importante individuare con precisione, quali funzioni vanno ascritte come essenziali al sacerdote. Dall’ecclesiologia di “comunione” del Vaticano II ne discendono soprattutto tre che vanno fatte oggetto di particolare considerazione, perché evidenziano la identità specifica del ministero sacerdotale: l’edificazione della comunità, l’evangelizzazione e l’attività liturgico-sacramentale e, infine, la testimonianza personale.
La prima funzione (e la più importante) è quella di concorrere alla formazione della comunità. Va detto anzitutto che la messa in atto di tale funzione non è certo appannaggio esclusivo del prete; è un processo complesso che si costruisce dal basso e che implica il coinvolgimento di tutti i fedeli, chiamati a mettere a disposizione i propri talenti, le proprie competenze e le proprie esperienze, convergendo in unità. Da questa confluenza nasce e si sviluppa una realtà assai ricca, nella quale si intrecciano relazioni diverse, più o meno intense, attraverso le quali si attivano forme di partecipazione, che determinano una vera mediazione tra l’espressione della propria identità  e il  servizio agli altri.
Acquisisce in tal modo consistenza reale (ovviamente senza la pretesa di esaurirlo)  il concetto di “comunione”. Il rapporto tra “comunità” e “comunione” è un rapporto di interdipendenza dialettica: si va infatti dalla “comunione” alla comunità”, in quanto è la prima a orientare la seconda; e, inversamente, dalla “comunità” alla “comunione”, perché attraverso l’attuazione del tessuto comunitario si dà un volto concreto alla “comunione”, senza eliminare per questo la distanza mai del tutto colmabile tra le due e sollecitando, di conseguenza, la “comunità” ad una costante forma di metanoia. Un’analoga dialettica si ripropone peraltro sul fronte del rapporto tra la vita interna della comunità e la sua proiezione all’esterno. I legami che occorre di continuo approfondire tra i fedeli per consolidare la reciproca appartenenza non devono essere vissuti in modo chiuso e autoreferenziale, ma devono diventare il trampolino di lancio per un’apertura sempre maggiore al mondo circostante al quale le comunità cristiane devono offrire il proprio contributo per la promozione dell’unità e della pace.
Il compito del sacerdote è quello di orientare il cammino dei fedeli in questa direzione. Per dare efficacia all’esercizio del proprio servizio egli deve stare anzitutto “dentro” (non sopra) la comunità, deve farsi fedele tra i fedeli, in ascolto delle loro esigenze e con la disponibilità a dare loro una risposta plausibile. L’attuazione di questo compito esige, capacità dialogica di confronto con tutti; esige la coltivazione di un’attitudine a rimettere. di volta in volta, in discussione le proprie opinioni, uscendo da un dogmatismo autoritario, che è all’origine del clericalismo. Ma esige anche l’adozione di strategie adeguate e di strumenti istituzionali che consentano la messa in atto del progetto partecipativo delineato. Nel primo caso è indispensabile rintracciare momenti costanti di incontro, che consentano l’acquisizione di atteggiamenti di rispetto, stima e amicizia, valori che creano il clima di una vera collaborazione e rendono evidente l’importanza della corresponsabilità. Nel secondo occorre dare vita a strutture con poteri decisionali – gli attuali consigli pastorali hanno carattere esclusivamente consultivo, riservando la decisione ultima al parroco – che rinsaldano la partecipazione, mettendo tutti nella condizione di vedere riconosciuto il proprio apporto. 
La seconda funzione ha come oggetto l’evangelizzazione.. Qui l’impegno del sacerdote occupa un ruolo centrale, anche se non esclusivo. L’annuncio del vangelo, che è missione di tutta la comunità, ha nel sacerdote un perno fondamentale. L’itinerario formativo di carattere teologico-pastorale lo mette infatti in grado di offrire un contributo peculiare alla crescita della coscienza religiosa. L’esercizio di questa funzione è oggi particolarmente importante. La situazione di secolarizzazione cui si è fatto cenno rende necessaria una vera ricostruzione della coscienza cristiana, a partire dalla risuscitazione della domanda di trascendenza e di assoluto – in questo senso si parla oggi di rievangelizzazione – non dando per scontato quello che scontato non è. 
Si tratta dunque di partire da lontano ricreando o rigenerando quel tessuto valoriale – dalla gratuità alla disponibilità a ricevere, dalla solidarietà all’ospitalità fino al ricupero del senso del mistero – che costituisce la precondizione per aprirsi all’accoglienza del dono divino: la fede ha bisogno di un humus entro cui radicarsi e      svilupparsi. Ma si tratta soprattutto di proporre il messaggio evangelico in tutta la sua radicalità e la sua bellezza, facendolo risuonare come “buona notizia” per l’uomo odierno, mettendolo perciò in stretto rapporto con le dinamiche socioculturali proprie dell’attuale situazione. La proposta cristiana non può (e non deve) certo venir fatta in modo arido e astratto; deve diventare un messaggio esistenziale che tocca le corde dell’interiorità della persona e la coinvolge in un processo di cambiamento.            
Spetta in particolare al sacerdote, grazie all’iter culturale percorso (anche se oggi fortunatamente è sempre più numeroso il numero di laiche e di laici che frequentano le facoltà teologiche o i corsi di scienze religiose), mettere a disposizione della comunità la propria competenza, raccogliendo le suggestioni che vengono dall’esperienza variegata dei fedeli, che ha origine in mondi diversi: dalla famiglia al lavoro, fino all’impegno sociale ed ecclesiale. La  Parola di Dio, che è oggi giustamente ricollocata al centro dell’annuncio, ha a che fare con la vita quotidiana di ciascuno, spingendo nella direzione di un cambiamento di mentalità e di condotta, al cui centro vi è la ricerca del Regno di Dio come Regno di giustizia, di pace e di carità.
La scelta fondamentale che occorre fare, se si intende dare corso a questa prospettiva, è quella di passare da una “pastorale dei sacramenti” a una “pastorale dell’annuncio”, non rinunciando certo all’azione sacramentale, ma non facendo di essa la prima preoccupazione – ancor oggi sembra essere questo il principale assillo della maggior parte dei sacerdoti (si pensi soltanto alla moltiplicazione delle messe) – ma inserendola all’interno di un cammino di crescita interiore e di impegno etico e civile, dando alla celebrazione, in particolare a quella eucaristica, il carattere espressivo della convergenza di una comunità vera attorno alla mensa comune per rendere trasparente il senso di una forma di comunione in cui la carità vissuta nel quotidiano trova piena espressione nell’inserimento entro la pasqua del Signore e trae da quest’ultima una rinnovata energia per proiettarsi nel mondo come strumento di unità e di solidarietà concreta. Il sacramento, ogni sacramento sia pure in forma diversa, diviene in questo modo celebrazione di una sacramentalità esercitata nella esistenza e stimolo a rendere l’esistenza una realtà sempre più sacramentale; e l’azione del sacerdote acquisisce il significato di mediazione dei misteri divini al servizio della comunità e del mondo.

  1. 2. Il valore della testimonianza 

Da ultimo (ma non in ordine di importanza) – è questa la terza funzione – un posto del tutto singolare va assegnato alla testimonianza personale. Qui accanto agli habitus già ricordati, funzionali soprattutto a dare il proprio contributo alla  crescita della comunità, due virtù meritano di essere particolarmente ricordate: la povertà e la dimensione contemplativa.

La prima – la povertà – ha un vasto raggio di implicazioni che vanno dalla sobrietà di vita, con una limitazione dei beni materiali e un ridimensionamento dei bisogni, come condizione per aprirsi ai doni divini e come via per dare corso a una maggiore giustizia verso le classi più povere, fino alla rinuncia al potere inteso come esercizio del dominio per fare propria la logica della gratuità e del servizio. Quanto queste due attitudini siano attuali è del tutto evidente. Il consumismo dilagante e la ricerca sfrenata della ricchezza, nonché la volontà di potenza sono gli idoli perseguiti da molti. Il che spiega, da una parte, l’accentuarsi delle diseguaglianze sociali, e, dall’altra, il ritorno degli assolutismi economici e politici, dei nazionalismi e dei sovranismi, che non sono soltanto appannaggio di chi governa ma godono di un consenso popolare sempre più ampio.
La seconda virtù – la dimensione contemplativa – è oggi avvertita da molti, consciamente o inconsciamente, come un bisogno fondamentale di fronte al dilagare del frastuono assordante che ammorba la vita. Il disagio che cresce nelle grandi metropoli, soprattutto nelle periferie sovrabitate e anonime, manifesta la presenza di uno stato diffuso di malessere ontologico, che non raramente assume  sembianze patologiche. L’accento contemplativo di una spiritualità che non ha nulla di sacrale o di magico, ma che rende trasparente il senso del mistero e della trascendenza diviene alimento prezioso che soddisfa in chi si accosta a chi lo vive il bisogno ricordato, perché rivela il volto di Dio, la cui ricerca, per dirla con Agostino, è la radice dell’inquietudine del cuore umano.. Questo è tanto più vero quanto più ad avere il predominio nell’interpretazione della realtà sono ai nostri giorni le logiche scientiste e utilitariste, che rischiano di inaridire l’anima, sottraendola all’appagamento che viene dalla poesia e dalla contemplazione; in una parola, dalla tensione mistica. , che è il momento più alto dell’esperienza religiosa.

Un prete, in definitiva, quello di oggi che, accanto alla rinuncia al ruolo autoritario del passato per servire la comunità, attraverso l’impegno a costruirla e ad evangelizzarla, deve rendere con la propria vita omaggio alla bellezza del messaggio evangelico.

 Esodo, n. 4/2021, "Tantum aurora est" pp. 38-43