di Angelo Favero   

Ho cercato di leggere con attenzione le relazioni che ci sono state trasmesse dall’apposito comitato coordinatore. Questo gruppo ha raccolto le varie riflessioni e indicazioni dalle diverse parti della nostra diocesi [Venezia, ndr] intorno all’impegno di riflettere sulla situazione attuale della Chiesa. E’ la grande novità di questo Sinodo, che ha già preso avvio con l’ascolto della base cristiana e con la raccolta delle varie indicazione; senza dubbio l’obiettivo iniziale era ed è quello di esprimere il sentire del popolo di Dio che vive nelle varie località di questo mondo, oggi tormentato dalla guerra e da altri diversi conflitti in Asia e in Africa.

Molto opportunamente Papa Francesco ha voluto investire tutta la Chiesa intorno alla riflessione sinodale che avrà il suo vertice nell’assemblea conclusiva dei rappresentanti dei Vescovi tra due anni.
La nostra diocesi molto opportunamente ha impegnato vari settori del popolo credente per riflettere, ripensare, approfondire, suggerire opportune indicazioni intorno alla riforma della Chiesa. Il cardinale veneziano Contarini vissuto nella prima metà del 1500 era solito ripetere in un periodo non facile per la Chiesa soprattutto a causa dei costumi decisamente scostumati dei vertici ecclesiali: “Ecclesia semper reformanda”; la Chiesa ha bisogno di essere continuamente riformata nelle strutture e nelle forme per rimanere costantemente fedele alla Voce del Signore. Non c’è alcun dubbio che il perno vitale della Chiesa sta certamente nell’ascolto della Parola di Dio e nella chiamata universale che invita a trovare la salvezza nel Cristo crocifisso e risorto attraverso la fede, l’accoglimento della Parola divina, Parola di salvezza universale. E senza falsi pudori questa impostazione la dobbiamo a Lutero ed è stata fatta propria dal Concilio Vaticano II.
Assieme all’elogio, che mi  sembra doveroso sul lavoro che è stato fatto e trasmesso, ho la presunzione di offrire qualche riflessione che potrebbe forse utilmente integrare quanto è già stato scritto. Mi pare che in quel testo poco spazio sia stato dato alla Parola di Dio. Abbiamo bisogno di ascolto, “fides ex auditu” ci ricorda san Paolo (Rm 10, 17). La fede dipende dall’ascolto. Constatiamo senza alcuna presunzione valutativa che viviamo in una società in cui si parla tanto, anzi moltissimo, siamo sommersi attraverso i mezzi di comunicazione da una valanga di parole ma in genere ascoltiamo poco; siamo immersi in un mare di parole che  ci impedisce di parlare. Ovviamente neanche il mutismo va bene; una volta interpellati occorre rispondere come meglio possiamo. Siamo in una società impostata sui mezzi di comunicazione; siamo di necessità immersi nel bersagliamento delle informazioni, degli sproloqui, di una valanga di parole spesso inutili e senza senso. E invece per contrapposto avremmo bisogno di silenzio e di ascolto. E allora per tornare al testo sinodale mi permetto di suggerire di dare molto più spazio all’ascolto della Parola di Dio, alla meditazione, alla riflessione, alla teologia di approfondimento, al confronto con le varie interpretazioni della Parola di Dio con l’opportuna attenzione al magistero ecclesiale, che ha la funzione non di condannare e di escludere ma di aiutare e confermare nella fede; e ciò può avvenire accostando costantemente la Parola che viene da Dio e ovviamente in modo particolare da Cristo che il Quarto Vangelo definisce addirittura Parola di Dio (“Verbum Dei”). “Simone, Simone, ecco satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli” (Lc 22, 31-32).
Ben si capisce che questa attenzione all’ascolto della Parola mette a disagio e sconvolge quella religiosità devozionista, che è fatta prevalentemente di nostri riempitivi, talora sbrodolamenti sentimentali, di nostre proiezioni, di nostre esigenze anche spirituali ma che appartengono alla sfera del nostro soggettivo. La Chiesa ha bisogno di liberarsi dal devozionismo e deve imboccare la strada dell’ascolto e dell’obbedienza alla Parola di Dio. Non a caso la fede è definita un’obbedienza alla Parola.
Un altro punto da sottolineare potrebbe essere quello di “eritis mihi testes”. Non a caso così si conclude il Vangelo di Matteo: “Euntes ergo docete omnes gentes baptizantes eos in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti docentes eos servare omnia quæcumque mandavi vobis et ecce ego vobiscum sum omnibus diebus usque ad consummationem sæculi” (Mt 28, 19-20). La Chiesa ha bisogno di camminare nello spazio e soprattutto nel tempo; la staticità con è conforme all’imperativo di Cristo. Nel camminare lungo le strade della storia deve dare testimonianza dell’impegno di fede secondo l’imperativo di Cristo: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13, 34-35). Non si tratta dell’amore di eros, di quell’amore che è inscritto nella nostra natura. Per paradosso mi permetto di dire che non occorreva venisse il Figlio di Dio a insegnarci l’eros; è già iscritto nella nostra natura e dobbiamo solo viverlo come un dono prezioso della nostra vita terrena. Il “comandamento nuovo” sta nell’agàpe, nell’amore in cui gli uni gli altri non sono predefiniti in base al colore della pelle, alla cultura, all’intelligenza, alla capacità di affermarsi nella vita, ma unicamente nel fatto che ogni creatura umana, anche quella più devastata dalla sorte, quella più immersa nel male, ogni creatura in quanto tale, merita rispetto e comprensione. Questo rapporto annunciato da Cristo non è regolato dal “do ut des” come nel caso dell’eros, ma dalla volontà di scelta. E’ il comandamento, cioè un ordine non un semplice invito, “nuovo”, sempre nuovo, sempre da scoprire, sempre aperto nell’utopia dell’amore universale che esclude odi, incomprensioni, guerre, stragi e tutto ciò che guasta i nostri rapporti umani. Se questi sono i perni della vita cristiana allora questo Sinodo offrirà certamente enormi frutti; non farà altro che riprendere le indicazioni del Concilio Vaticano II che purtroppo spesso sono state abbandonate o trascurate. In concreto abbiamo bisogno di una Chiesa sullo stile di Papa Francesco: che predichi la speranza contro ogni speranza, che predichi l’amore anche quello impossibile e utopistico a sconfitta delle nostre perversità, che viva la presenza del Dio crocifisso per ridarci il coraggio di vivere nel clima della risurrezione.
E tuttavia un’osservazione radicale domina su tutto il discorso riguardo a questo sinodo: duemila anni di storia ci avevano abituati a vedere che le grandi decisioni intorno alla fede e alla morale stavano in mano a un manipolo di vescovi, solitamente ma non sempre, in unione con il Papa romano per decidere per tutto il popolo di Dio. Fin dal primo Concilio, quello di Nicea del 325, abbiamo assistito alla riunione di vescovi coordinati e guidati a fini di unità politica dall’Imperatore Costantino, intelligentemente considerato “koinòs epìskopos” anche se divenne cristiano battezzato solo in “limine vitae”; vale la pena  di notare che il pedobattesimo (il battesimo ai bambini) divenne di uso comune tra il quarto e il quinto secolo. Ma i primi secoli cristiani videro l’impegno di chiarificare la natura di Gesù ritenuto il Messia, il consacrato di Dio. Per un notevole prete egizio, Ario, Gesù era l’ultimo dei profeti ma non certamente Figlio di Dio e tanto meno consustanziale con il Padre; l’arianesimo fu come un’anticipazione dell’Islam. Oggi noi abbiamo una sostanziale chiarezza intorno al Dio, che si è rivelato nella storia d’Israele e ha mostrato il suo volto nella vicenda umana dell’ebreo Gesù, che dapprima ha preso coscienza e poi ci ha comunicato che il Dio d’Israele e cristiano non è un Dio muto e solitario, che fa gli affari suoi nell’Olimpo, ma è pienamente vivo sia nel dialogo interno con l’Amore del Figlio, sia all’esterno per cui coinvolge nel suo infino amore anche noi povere creature umane. Lo Spirito ha reso cosciente la Chiesa, insegnando e ricordando (cfr. Gv 14, 26), del contenuto della fede e per fede riteniamo che quest’opera continui viaggiando nel tempo. I Concili, particolari ed ecumenici, sono stati realizzati dai vertici della Chiesa e talora sono risultati anche incapaci di interpretare la voce dello Spirito nel proprio tempo. Penso a quel Concilio, più volte da me citato, il Lateranense V, che proprio agli inizi del 1500 non capì quanto ribolliva nella Chiesa; e infatti nel 1517 scoppiò la grande rivoluzione luterana che spaccò la Chiesa in modo così radicale da impiegare secoli per aprire un dialogo tra i due tronconi di Chiesa. Di fronte alla situazione creata dalla Riforma rispose la Controriforma del Concilio di Trento, che resse con effettiva capacità la Chiesa per quattro secoli e portò notevoli frutti di capacità e di santità. Il Concilio Vaticano II fu un rifiorire necessario poiché i frutti del tridentino si andavano appassendo. La grande novità odierna, merito di questo Papa, è la realizzazione di quanto la “Lumen gentium” conciliare aveva detto con chiarezza: la Chiesa è costituita dal popolo di Dio, dai credenti e battezzati; all’interno di questo popolo trova il proprio servizio il sacerdozio ministeriale. Su queste linee teologiche, semplici e fondamentali, purtroppo anche nella Chiesa ha preso non poco piede una burocrazia soffocante in cui le idee basilari vengono soffocate da formalismi spesso inutili e intriganti. Si tratta di sburocratizzare la Chiesa, di renderla viva, di renderla, sulla scia della visione apocalittica, accogliente a immagine della sposa che scende dal cielo come una nuova Gerusalemme, dimora divina ove vige una sola legge, quella dell’agàpe che rende riconoscibili i seguaci dell’Agnello, gli autentici cristiani In questa nuova Gerusalemme tutti hanno il diritto, e anche il dovere, di parola; la comunità infatti si costruisce non quando si impone la propria parola ma quando la parola di ciascuno entra come un mattone che contribuisce a formare la nuova costruzione. Il popolo di Dio si deve poter esprimere con i propri carismi, senza alcun vanto e alcuna prepotenza. Con questo metodo dell’ascolto della base Papa Francesco sta introducendo una delle più grandi riforme della Chiesa che certamente porterà i propri frutti.