Pubblichiamo, per gentile concessione dell’editore, un articolo di Domenico Canciani e Maria Antonietta Vito, tratto dal libro In dialogo con Simone Weil, a cura di Paolo Farina e Maria Antonietta Vito (Effatà Editrice, Torino 2015). Si tratta di un’opera a più mani, scritto a seguito di più incontri presso la comunità di Bose di Ostuni, in Puglia, sulla «Lettera a un religioso» di Simone Weil. 


La nostra riflessione su alcuni punti della Lettera a un religioso si articola in due parti. Nella prima ci facciamo carico del delicato tema di un antigiudaismo effettivamente presente nel pensiero di Simone Weil mentre, nella seconda, mettiamo a fuoco il suo rapporto, anch’esso problematico, con il cristianesimo e l’esigenza di viverlo, e di proporlo all’uomo contemporaneo, in una forma pienamente e finalmente incarnata.

Al tempo stesso, ci è sembrato necessario portare alla luce alcune tracce ebraiche che, nonostante ogni esplicito diniego, imprimono un’impronta tutt’altro che secondaria sul suo modo di filosofare: uno stile di pensiero che elegge la contraddizione come strumento privilegiato, la via sapienziale del suo approccio alla verità, la centralità della meditazione sulla giustizia, la funzione salvifica riservata all’infinitamente piccolo come manifestazione del soprannaturale nel mondo, il primato etico e ontologico dell’obbligo, e quindi della responsabilità, verso l’essere umano che soffre, il cui «grido muto» non cessa di interpellarci.

  • L’antigiudaismo, un’ombra sul suo pensiero

Partiamo dal presupposto che è necessario riconoscere lealmente, senza alcun tentativo di attenuarla, la presenza, nel pensiero di Simone Weil, di un esplicito pregiudizio nei confronti dell’Ebraismo. Tale pregiudizio, ricorrente in numerosi scritti, non può essere definito propriamente «antisemita» anche se non manca chi ha avanzato questa accusa[1]. Una condanna del popolo ebraico, in quanto etnia, avrebbe suscitato ripulsa in lei per prima e sarebbe stata inconciliabile con la sua visione del mondo. L’antirazzismo, come ogni forma di rispetto dell’essere umano, è infatti un punto irrinunciabile non solo della sua etica, ma della sua concezione spirituale, in cui l’obbligo del rispetto verso ogni essere umano è un fondamento ontologico incondizionato rispetto a qualsiasi diritto individuale o di gruppo. Tuttavia, è innegabile che alcuni giudizi taglienti sugli Ebrei – visti, nella storia antica, non come un popolo, ma come un manipolo di sradicati – suscitano inquietudine, perché alludono a una condizione d’inferiorità originaria, precedente all’elezione divina. In sostanza, già “in principio” vi sarebbe, a suo giudizio, un dato antropologico negativo nel modo di essere degli Ebrei; su questo si è poi innestata l’elezione, con gli effetti che ne sono derivati. Impossibile, dunque, non riconoscere in questi suoi pensieri un atteggiamento che rivela, se non disprezzo, come minimo una scarsa considerazione per la realtà originaria del popolo ebraico, la cui storia di salvezza è letta, esclusivamente, come storia di potenza.

Tuttavia, è pur vero che, in una linea di sviluppo che attraversa molti suoi scritti, ogni volta che affiora un giudizio negativo sull’Ebraismo, esso ha sempre di mira l’aspetto teologico, non quello etnico: il principale bersaglio polemico, di fatto, è la concezione di Dio presente nei libri storici dell’Antico Testamento, nei quali, compiendone una lettura solo parziale, Simone Weil ritrova come esclusivo e totalizzante l’elemento della forza, radice prima di quel totalitarismo che, incontrandosi poi con quello dell’Impero Romano, e confluendo nella Chiesa costantiniana, avrebbe inquinato in profondità tutta la storia dell’Occidente, anche in epoca moderna, fino all’esito devastante del nazismo. Inutile dire quanto simile approccio di lettura ad alcune parti della Bibbia resti spesso in superficie, incapace, vuoi per pregiudizio vuoi per assenza di strumenti esegetici adeguati, di andare oltre il livello letterale della narrazione.

Addentriamoci quindi nella lettura di alcuni brani che evidenziano, senza possibilità di equivoco, quale sia il suo pensiero su un tema così delicato.

Non stupisce che un popolo di schiavi fuggitivi, condotti a impossessarsi con massacri di una terra paradisiaca per dolcezza e ricchezza, coltivata da civiltà alla cui fatica essi non ebbero parte alcuna e che distrussero – un simile popolo non poteva dare granché di buono. Non era questo il modo per stabilire il bene su quel frammento di terra. Parlare di “Dio educatore” a proposito di questo popolo è una burla atroce. Di che stupirsi se c’è tanto male in una civiltà – la nostra – viziata alla base, nella sua stessa ispirazione, da quest’orribile menzogna? – La maledizione d’Israele pesa sulla cristianità. Le atrocità, lo sterminio di eretici e infedeli, era Israele. Il capitalismo, era Israele (lo è ancora, in una certa misura…). Il totalitarismo, è Israele (precisamente presso i suoi peggiori nemici)[2].

Coloro che hanno accostato Simone Weil assai per tempo, hanno letto queste righe, per la prima volta, ne La pesenteur et la grâce, l’antologia curata da Gustave Thibon attingendo ai Cahiers che Simone Weil gli aveva affidato prima di partire per gli Stati Uniti. L’ombra e la grazia, come impropriamente recita il titolo della traduzione italiana curata da Franco Fortini (pesanteur rinvia piuttosto alla nozione di forza di gravità), sotto la rubrica «Israele», riunisce una sventagliata di pensieri di questo tenore, che non sembrano lasciar dubbio sull’antigiudaismo di Simone Weil. Ciò non può che confermare che ci troviamo di fronte a un ostacolo che non può essere aggirato, in quanto costituisce l’aspetto più sconcertante e insostenibile del suo pensiero: l’intransigenza che lei esprime ci costringe a essere, a nostra volta, intransigenti. La memoria torna a un altro atteggiamento scandaloso, quello di Heidegger, al suo inspiegabile silenzio sulla Shoah. Simone Weil, se fosse vissuta più a lungo, probabilmente non avrebbe esitato a compiere autocritica, esattamente come avvenne quando si rese conto che il suo pacifismo aveva corso il rischio di trasformarsi in un’oggettiva connivenza con il nazionalsocialismo, finendo involontariamente per assecondarne il disegno di annientamento e di morte:

Il mio errore criminale prima del 1939 sugli ambienti pacifisti e la loro azione – scrive nel Taccuino di Londra – è stato la conseguenza dell’incapacità dovuta per tanti anni alla prostrazione per il dolore fisico. Trovandomi in uno stato che non mi permetteva di seguire da vicino le loro azioni […] non ho riconosciuto la loro inclinazione al tradimento[3].

Bisogna riconoscere che, in certe circostanze, anche gli spiriti più lucidi possono essere preda di condizionamenti, non vanno esenti da contraddizioni, cedono allo smarrimento. Lo ammette, con lucida umiltà, Wladimir Rabi, anch’egli Ebreo:

Ho sempre considerato Simone come parte del nostro destino, e che il nostro giudaismo si era reso colpevole nei suoi confronti. Lo smarrimento del giudaismo francese durante centocinquanta anni, la sua debolezza, la sua vacuità spirituale, erano tali da far considerare Simone Weil come il prodotto finale di una comunità che aspirava all’estinzione. In questo senso, la nostra Simone configura più una nostra che una sua colpa. Ella non ha fatto che tradurre nel commento al rapporto dell’Ocm (Organizzazione Civile e Militare, un gruppo di resistenti, promotori di un progetto di statuto per gli Ebrei nella Francia liberata), l’aspirazione profonda della nostra comunità a scomparire[4].
 

  • Resistenza e rifiuto del giudaismo

Il comportamento di Simone Weil è complesso e ha bisogno di essere collocato nel contesto storico degli anni della Resistenza. Come ha testimoniato con passione Malou Blum, ella aderì incondizionatamente al progetto di diffusione dei «Cahiers du témoignage chrétien», una rivista clandestina di cattolici e protestanti impegnati nella Resistenza, e accettò senza riserve la disciplina, lo spirito e i contenuti  dell’impresa. I tre quaderni che contribuì a diffondere, in ragione di trecento esemplari per numero, sono molto importanti anche perché affrontano in maniera inequivocabile e argomentata il problema del razzismo e dell’antisemitismo[5].

Questo impegno militante è rilevante in sé, come suo contributo personale alla Resistenza, ma lo è anche perché ci consente di fare un po’ di luce sul delicato problema dell’antigiudaismo. Va chiarito, anzi tutto, che era almeno parzialmente informata della situazione degli Ebrei, in quello specifico momento, e della gravità e ampiezza che andava assumendo la persecuzione nei loro confronti. Con sobrio e pudico disincanto, già all’inizio del settembre 1940, a un’alunna che la invitava a trovare rifugio nella sua casa di campagna, aveva risposto in termini inequivocabili:

Quel che mi scrivi, che, in caso di bisogno, ci sarebbe un posto alle Trouillières per la mia famiglia e per me, mi suscita nei tuoi confronti e nei confronti dei tuoi genitori – che hai sicuramente consultato – un sentimento di viva e profonda gratitudine. Nelle circostanze attuali, nulla è più commovente d’una proposta del genere; e il fatto stesso di ricevere una simile proposta, che la si accetti o meno, comporta lo stesso obbligo. Tuttavia, anche nel caso di bisogno, non credo di dover accettare[6].

A sostegno del suo rifiuto, aveva addotto due motivi: la volontà di patire, senza alcun privilegio, i disagi della povertà che le circostanze avrebbero imposto e la consapevolezza del pericolo che un gesto di generosità nei suoi confronti avrebbe comportato per la giovane alunna, nel momento in cui un’ondata di razzismo stava per abbattersi sulla Francia. In rapporto a questo secondo motivo, precisava:

C’è una cosa alla quale, suppongo, non hai pensato. Il contagio, il prestigio della vittoria che induce a imitare i vincitori, la pressione dei vincitori, l’esasperazione della miseria, e diversi altri fattori apporteranno quasi sicuramente in Francia, entro breve tempo – durante l’inverno, suppongo – una forma più o meno accentuata di razzismo. In questo caso, io mi troverò nel novero dei paria. A conti fatti, me ne dispiace; soffrire per qualcosa che non si è personalmente scelto e per il quale non si nutre alcun attaccamento mi sembra stupido. Ma infine, si dà il fatto che io sarò nel novero. Non ho alcuna possibilità di sottrarmi. È in mio potere, invece, non far subire il contagio di questa sventura a quanti non hanno avuto in sorte dalla nascita una simile maledizione, anche e soprattutto se sono abbastanza generosi per non temere questo contagio[7].

Le osservazioni contenute in questa lettera confermano quel che, in più occasioni, ha ripetuto anche Malou Blum, rievocando le quotidiane conversazioni avute con Simone Weil durante i sei mesi di attività clandestina svolta insieme. Al corrente del pericolo in cui si trovavano gli Ebrei, non era stata certo la sua condizione di ebrea, potenzialmente minacciata, a indurla a partecipare all’iniziativa dei «Cahiers du Témoignage chrétien». D’altra parte, è altrettanto vero che l’impegno da lei prodigato non avrebbe retto senza un'accettazione incondizionata, da parte sua, dei contenuti e delle argomentazioni sviluppate dalla rivista, nella quale il razzismo integrale professato dal nazismo veniva esplicitamente definito «una mostruosa divinizzazione del sangue e della razza». Ciò nondimeno, le riusciva intollerabile che una giovane come Malou si esponesse volontariamente alla sventura, mettendo a rischio la sua vita per lei. Riteneva perciò necessario farle capire che acconsentiva a lottare non a causa dell’antisemitismo, ma nonostante l’antisemitismo. In sostanza, ai suoi occhi, entrare nella Resistenza voleva dire opporsi a un sistema la cui perversità andava ben oltre il caso specifico della persecuzione degli Ebrei: un sistema che, per lei, era il segno della bancarotta di quei valori dell’Occidente che aveva sempre considerato essenziali. Il suo impegno aveva insomma una connotazione essenzialmente etica e si configurava, anzi tutto, come volontà di lotta per la costruzione di una nuova civiltà.

  •  Contro una patria terrestre per gli Ebrei

Tuttavia, questo impegno, prova tangibile della sua fedeltà a una certa idea di Francia, non è sufficiente a fugare ogni dubbio su una forma di antigiudaismo che investe, da un lato, il suo vissuto personale, l’identità ebraica, mai vissuta come sentimento di appartenenza e, dall’altro, la dimensione teorica rappresentata dalle riflessioni contenute nei Quaderni, nei saggi redatti a Marsiglia – «I tre figli di Noè e la storia della civiltà mediterranea», «Israele e i gentili» –, nella Lettera e infine nella Nota redatta a Londra in cui, pensando a una Francia liberata, propone un inquietante «Statuto per gli Ebrei».
Le idee espresse, in numerose circostanze, sulla storia del popolo ebraico, il giudizio fortemente critico su buona parte dell’Antico Testamento, più inopportuno che mai in quel particolare momento storico, non consentono di spingersi fino ad accusarla d’antisemitismo. Non va dimenticato, del resto, che anche nella teologia cattolica e tra le eresie cristiane, soprattutto nel Marcionismo, sono rinvenibili degli antecedenti delle opinioni espresse da Simone Weil. Se è necessario dissentire nettamente da lei e rammaricarsi, come padre Perrin più volte ha fatto con gran libertà, per la disinformazione e la fretta con cui si è servita di una dottrina cristiana non adeguatamente assimilata, questo non è però motivo sufficiente per accusarla d’antisemitismo. Vi è tuttavia uno scritto, molto inquietante, sul quale non è possibile sorvolare: in esso è analizzato e commentato un documento, intitolato Basi di uno statuto delle minoranze francesi non cristiane e di origine straniera, fatto circolare dall’Organizzazione Civile e Militare[8]
Poiché «l’esistenza della minoranza ebraica non si configura come un bene» – argomenta Simone Weil – la maggioranza è legittimata «a prendere delle misure relative agli Ebrei» allo scopo di prevenire possibili inconvenienti. La giustificazione di ciò starebbe nel fatto che la minoranza ebraica, a causa dei suoi due tratti caratteristici, lo «sradicamento» e l’«irreligiosità», appariva come il simbolo stesso del male dell’Occidente: 

Poiché si presenta come il simbolo dello spirito della nostra epoca, questa minoranza è stata automaticamente posta in evidenza da tale correlazione. Questo spiega e legittima il posto che occupa, come spiega e legittima le reazioni ostili nei suoi confronti. Essa è infatti il simbolo del male. Bisogna chiamare cattivo ciò che è cattivo, fatte le debite proporzioni. Il simbolo del  male è certamente un male, ma il male originario è un male ben più grande[9].

Per una sorta di radicalismo logico, tipico del suo stile di pensiero, non si sottrae a nessuna delle conseguenze implicite nelle premesse del suo ragionamento: mentre riconosce a Spagnoli, Portoghesi, Polacchi e a ogni altra minoranza il diritto di ricreare, riunendosi, un corrispettivo della propria  «patria carnale», nega con forza questo stesso diritto agli Ebrei:

La Spagna, la Russia sono veramente delle patrie, delle sorgenti di calore e di nutrimento per le anime. Il giudaismo non è niente di tutto questo. Non lo è stato neppure nel passato. Come nel caso dei Romani, un sogno di dominio temporale ha saldato insieme tramite l’orgoglio una banda di fuggitivi. Dissolvendo senza brutalità gli ambienti ebraici, non si priverebbero affatto i loro componenti di una patria, ma li si predisporrebbe per la prima volta ad averne una[10].

La clausola «senza brutalità», apposta in un secondo momento sul rigo del manoscritto, lascia indubbiamente perplessi, anche se occorre sgomberare il campo da un possibile equivoco: ciò che rifiuta di accettare come propria non è la «condizione» di sradicamento, che merita tutto il suo rispetto, in quanto è la più grave sventura dell’uomo contemporaneo, ma «l’identità ebraica». Ciò nondimeno, affermazioni del genere, soprattutto in quel frangente storico, appaiono inaccettabili. Va poi considerato che non ci troviamo di fronte alla manifestazione di un parere personale, ma di un'indicazione finalizzata all’agire. A suo giudizio, in una società autenticamente cristiana, pervasa di spiritualità evangelica – che non corrisponde certo al Cattolicesimo d’impronta romana e costantiniana – l’Ebraismo, quasi per contagio, avrebbe dovuto essere gradualmente riassorbito e assimilato. In questo orizzonte, ai suoi occhi acquistavano legittimità misure discriminatorie che, in ogni caso, in noi che le leggiamo oggi, suscitano profonda inquietudine. Il Preludio a una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano, il progetto politico al quale, contestualmente, lavora a Londra, riconoscendo nella costruzione di una nuova polis all’ispirazione religiosa un ruolo determinante nel definire un orizzonte di senso e un ambito di consenso intorno a valori etici condivisi, si regge sullo stesso presupposto. Paradossalmente, Simone Weil sembra disposta a fondare, sul sacrificio della propria identità ebraica (che però non è soltanto la sua!), la costruzione di una civiltà nuova, autenticamente cristiana, negatrice dell’orgoglio di nazione eletta e del prestigio da sempre riconosciuto alla forza. In un certo senso, il sacrificio, sia pur «senza brutalità», dell’identità ebraica sarebbe legittimato dalla finalità etica, per lei centrale, di curare il «male originario dell’Occidente», ovvero la forza. Non a caso, il testo in questione si chiude con queste parole: «È solo in rapporto all’ispirazione proveniente da una spiritualità autentica e che avesse già cominciato a impregnare la vita del paese, che può trovare spazio l’adozione di misure protettive nei confronti di coloro che sono incapaci di aderirvi, e tra questi si verrebbero a trovare inevitabilmente gran parte degli Ebrei»[11].

L’ideale di una «spiritualità autenticamente cristiana» così pura ed assoluta che, non in una prospettiva escatologica, ma nell’hic et nunc della storia avrebbe impregnato di sé ogni altra concezione religiosa, prima tra tutte quella ebraica, attraverso un processo di assimilazione forzata, non può non apparire ambiguo e inquietante.

  • Il rammarico di Emmanuel Lévinas

Sulle conseguenze di questa riflessione, confinata in un testo non destinato alla pubblicazione e sul quale, probabilmente, per l’isolamento in cui lavorava a Londra, non ebbe l’opportunità di confrontarsi, non è tuttavia possibile sorvolare. Occorre riconoscere che la questione ebraica costituisce un buco nero, un vuoto in cui parte del suo pensiero rischia di essere risucchiato. Si ha diritto di «riposare» nei suoi pensieri più sublimi se non si dimentica che ci troviamo di fronte a una filosofia e a una mistica le cui fonti Simone Weil è andata a cercare, con ostinata passione, nelle culture pre-cristiane, nella spiritualità indù, in quella cinese, nel mito, nel folklore, ecc., attingendo ai più remoti rivoli, misconoscendo invece la potenziale «sorgente ebraica» di molti suoi pensieri. Le parole pacate e al tempo stesso sconsolate di Lévinas meritano di essere ricordate:

Come scusarla di riferirsi a mondi che, da soli, domandano ognuno una vita intera per essere penetrati? Ella contrappone alla Bibbia, che conosce male, dei «brani scelti» di civiltà estranee all’Europa. Mentre i testi «digeribili» [che parlano dell’amore e della compassione di Dio] riempiono l’Antico Testamento, ella li considera eccezionali, li attribuisce a degli stranieri, e poi con una generosità sconcertante va in estasi davanti al più piccolo tratto divino che attraversa mondi lontani come la Luna. Quando mai ha cercato di sapere in quali notti barbare queste folgorazioni si trovano avvolte?[12]

A questo rincrescimento di Lévinas fa eco Sylvie Weil, nipote di Simone che, in un recente libro di memorie, si chiede come sia stato possibile che una persona, che ha tanto scritto sulla carità, sulla giustizia, sulla sventura, abbia invece sdegnato i numerosi racconti colmi di mirabili esempi di Tzedaka [carità] che «hanno incantato le orecchie e l’immaginazione dei suoi avi»[13]. Ricordando poi la solitudine desolata in cui gli amici, contrari a paracadutarla in Francia, nel 1943, avevano lasciato morire la zia a Londra, e riferendosi alle retate e alle deportazioni di bambini ebrei in quegli stessi mesi, aggiunge: «Ma se ne eri al corrente, perché, dal fondo della tua disperazione, […] perché non hai avuto un pensiero, una parola almeno per tutti quei bambini ebrei  atterriti, strappati così crudelmente alle loro madri?»[14].

Lo scandalo resta innegabile. Per Simone Weil, come sostiene Robert Chenavier in uno scritto appassionato quanto sconsolato, «né la giudeità né la giudaicità hanno, letteralmente, alcuna realtà, lei è cieca di fronte alla specificità della sorte subita dagli Ebrei in quanto Ebrei»[15].
Proprio perché riconosciamo, senza minimizzarla, quest’ombra presente nella sua riflessione, ci siamo imposti di portare alla luce, in questo nostro scritto, alcune innegabili tracce di pensiero ebraico presenti in lei: esse sono come le sinapsi, depositate nella sua mente che, suo malgrado, garantiscono la misteriosa trasmissione di un impulso[16].
 

  • Le sue e le nostre domande

L’altra questione con cui ora ci sembra necessario confrontarci, in modo cauto e problematico, riguarda l’esigenza, avvertita con forza da Simone Weil, di un cristianesimo veramente e finalmente incarnato nella storia contemporanea. In questa parte del nostro scritto non ci proponiamo di rimettere a fuoco i punti, già ben noti, in cui si articola la sua requisitoria nei confronti della chiesa cattolica, ma di esplorare alcuni aspetti di una questione molto delicata e assolutamente centrale che ella pone, con urgenza, alla coscienza degli uomini del suo tempo, soprattutto negli ultimi scritti di Londra. Ci pare che sia giunto il momento, per noi, di chiederci se oggi sia ancora possibile che un’ispirazione cristiana possa permeare di sé la convivenza tra gli uomini senza immettervi elementi di prevaricazione e senza trasformarsi in uno strumento d’abuso e di esclusione nei confronti di chiunque non vi aderisca o persegua altre vie, anche molto diverse. Ci sembra che il contributo dato da Simone Weil a questo tema sia molto originale, decisamente eccentrico, sia rispetto alla tradizione di matrice illuminista – tendente a valorizzare, come elemento di aggregazione tra i membri di una collettività, una religione civile da intendersi come orizzonte di valori condivisi sui temi essenziali alla base del patto sociale – sia alla tradizione di un cattolicesimo d’impronta liberale, incline a travasare, nei limiti del possibile, nella cultura media del cittadino qualche elemento di dottrina cristiana che, estrapolato dal suo contesto teologico, possa agire come incitamento al bene anche nei confronti di individui non credenti. Ciò che è invece al cuore della proposta “politica” di Simone Weil è la consapevolezza della necessità, improrogabile, di un serio e radicale ripensamento, da parte della società europea, sul vuoto di civiltà e sulla miseria spirituale determinata del suo progressivo sradicamento dalla sorgente greca e cristiana, della cui eredità essa ha gradualmente finito col perdere coscienza[17].

Se davvero, come pensa Simone Weil, il tratto specifico dei tempi moderni è dato da un clima di irreligiosità, d’indifferenza a qualsiasi questione di valore, accompagnata, paradossalmente, dalla tendenza a elaborare sempre più sofisticate forme di idolatria sociale, allora non c’è da meravigliarsi se la perdita di contatto, lo smarrimento della memoria di quel grande patrimonio sapienziale, greco e cristiano, che è alla radice della cultura europea, la rende sempre più asfittica, più amorfa, più immiserita in un pensiero unico dominante, che riconosce nella gelosa conservazione di sé, e delle proprie conquiste materiali, l’unico obiettivo degno di essere perseguito.

L’obiettivo che poniamo, persuasi della validità e della fecondità, oggi, di molte sue analisi, è quello di interrogarci su come sia concretamente possibile, in una società come la nostra, malata di nichilismo di massa, proporre un cristianesimo incarnato che, senza abdicare alla sua specificità, senza annacquare il suo messaggio, sia disposto a liberarsi da quelle incrostazioni culturali, sedimentate nel tempo, che tanto spesso soffocano, fino a occultarla, la perla nascosta, il nucleo autentico dell’annuncio.

L’irrompere, in un momento particolarmente buio, di un evento nuovo, auspicato quanto inatteso, il pontificato di Francesco, si offre come un germe di speranza, e una ragione di fede, che viene in soccorso proprio nel momento in cui andava attenuandosi la fiducia in un possibile cambiamento. Al di là di ogni speculazione sugli aspetti più popolari della sua figura, si ha la benefica sensazione che il soffio dello Spirito cominci a investire l’intera comunità dei credenti, e non solo, e che di conseguenza l’istituzione ecclesiale nel suo insieme, anche nelle componenti più invischiate in una logica di conservazione del potere, si senta in qualche modo costretta a compiere uno sforzo di ripensamento di sé e della sua originaria e sovente dimenticata funzione di puro e umile servizio alla comunità.

Entriamo quindi nel vivo del tema, cominciando ad affrontare le domande che più ci sollecitano e sulle quali ci sembra urgente interrogarci. Un primo quesito ci pare che non debba essere eluso: quali elementi della critica di Simone Weil alla Chiesa risultano ancora e più che mai vivi e vitali per noi, nella fase storica che Chiesa e società stanno vivendo, e quali invece, benché mai del tutto superati, andrebbero oggi, se non altro, riformulati alla luce di alcuni innegabili mutamenti intercorsi nel lungo arco di tempo che ci separa da lei? Ad esempio, possiamo ancora ritenere che il motivo che oggi trattiene molte “menti pensanti” sulla soglia della Chiesa, o fuori di essa o magari dentro ma con estremo e quotidiano disagio, sia l’anathema sit?[18] In altri termini, è ancora credibile l’immagine di una «Chiesa totalitaria»? Intendiamoci, non che la sua struttura gerarchica, plasmata sul modello della monarchia assoluta d’origine divina, sia stata finora sostanzialmente messa in discussione. Quel che si avverte, però, è che il problema vero, oggi, è esattamente sul versante opposto: il rischio, da parte della Chiesa, e di un certo modello di cristianesimo che continua a proporci, di scivolare, giorno dopo giorno, verso una totale irrilevanza, verso un’incapacità di incidere nella vita reale delle persone, di crearsi un varco nelle coscienze più tormentate, attraverso il suo messaggio, un messaggio che troppe volte, anche negli ultimi anni, non è stato annunciato con gioia, ma proclamato con la risolutezza di chi è convinto di avere in pugno la verità.
D’altro canto, a fronte di un’attenzione mediatica superficiale, e di un ascolto più emotivo che riflessivo da parte delle masse che riempiono le piazze nelle occasioni festive, è evidente che questo messaggio, brandito con forza, si rivela di fatto, quasi sempre, incapace di penetrare nel tessuto della vita quotidiana dell’uomo d’oggi, di essere per lui un faro nella notte aiutandolo, non solo a reggere il peso degli affanni quotidiani, ma a illuminarne il senso alla luce di una lettura della propria vita che abbia il Vangelo come chiave d’accesso e termine di confronto continuo. Queste considerazioni, è evidente, valgono soprattutto per noi occidentali, per la cultura europea in particolare, ove davvero un Cristianesimo orientato a riscoprire quale senso possa avere oggi il farsi discepolo del Galileo, potrebbe essere non tanto un’ancora di salvezza quanto un antidoto, un autentico farmaco in contesti sociali nei quali la tentazione del nichilismo non è solo un rischio ipotetico, ma una realtà potentemente e, per certi versi, irreversibilmente già presente e attiva. Qui, beninteso, il pensiero non va a un «nichilismo filosofico» capace di guardare in faccia, con coraggio, l’assurdo di una «vita senza qualità» e avvertirne, fino in fondo, lo sgomento, accettando di patirne tutto il peso e l’angoscia. Al contrario, siamo quotidianamente esposti, con ben scarse difese, al contagio di un’irreligiosità di massa, intesa proprio nel senso datole da Simone Weil, ovvero come totale e volontaria ignoranza della distinzione tra il bene e il male. Non possiamo fare a meno di constatare, con sgomento, ogni mattina, ad apertura di giornale, che davvero «questo mondo è in preda alla dismisura» e che la confusione tra i mezzi e i fini, nella mentalità collettiva, è divenuta la modalità più ovvia e diffusa d’interpretazione della realtà[19].

Nel porre attenzione a questi dati, può esserci di grande aiuto, come si è detto, la riflessione che lei compì sullo sradicamento, nei suoi ultimi mesi di vita, riconoscendovi la malattia mortale dell’Occidente: in che cosa affondano oggi le nostre radici se non nel monoteismo della tecnica, nell’ossessione del potere, personale e di gruppo, nel culto della ricchezza materiale, proposta come panacea di tutti i mali? Quale sentimento di libertà, quale genuina percezione dell’umano può mettere radici, in questo clima d’idolatria di massa? Bisognerebbe essere completamente ciechi per non vedere, attorno a noi, quanta gente soffre e non sa neanche perché, in un’ignoranza sulle cause del proprio dolore che diventa, essa stessa, un moltiplicatore di disagi e di inquietudini. Sbrigativo, quanto inefficace, è destinato a rivelarsi l’espediente tecnico, tipicamente moderno, di medicalizzare questi segni di vuoto indicibile, appiccicandogli l’etichetta della depressione e, così facendo, consegnare chi soffre ai buoni uffici della chimica: l’uso di farmaci, in determinati casi indispensabile, è ben poca cosa, è anzi controproducente, nella misura in cui tende a occultare le vere ragioni di un disagio che stringe, in una stessa morsa, corpo e mente.
Fortunatamente, negli individui più sensibili, va facendosi insistente la necessità di riflettere sull’assoluta fragilità del terreno culturale in cui, forse senza accorgercene, abbiamo lasciato crescere le radici nostre e dei nostri figli. A questi individui e a questi gruppi, minoritari ma niente affatto marginali, sarebbe urgente, non offrire una risposta, ma garantire se non altro ascolto, attenzione, vicinanza e, al tempo stesso, suggerire, proporre, più con le azioni che non con le parole, la possibilità di fare esperienza di un vangelo all’altezza dei tempi, non soltanto leggendolo e commentandolo assieme, ma vivendolo, riconducendolo a sé, sondandone il potenziale di verità nelle scelte di tutti i giorni. Può darsi che, da questa esperienza condivisa, che dovrebbe precedere qualsiasi sforzo di riformulazione teorica, maturi la gioiosa scoperta della possibilità di avviare proprio qui, tra le angosce del parto di cui è gravido il nostro presente, la costruzione di una nuova religio: non in una prospettiva meramente soggettiva, in cui la fede sia vissuta come lenitivo da spalmare sulle ferite dell’anima, ma come occasione per ripensare, in termini tutti da riformulare, il senso di una nuova convivenza sociale: non solo le sue regole, ma la forza misteriosa sottesa a ogni autentico legame di fedeltà reciproca tra gli uomini. La domanda che ci sollecita è dunque questa: che cosa può voler dire per noi e in che misura oggi è possibile concepire un cristianesimo veramente incarnato, così come tentava di pensarlo Simone Weil?

  •  Ma si è mai davvero incarnato?

La prima questione da porci è se lo sia mai stato. Forse, solo sulla croce, l’amore soprannaturale «si è fatto carne» con pienezza assoluta: nel grido del Figlio, nel suo ultimo respiro, trascendenza e immanenza si sono toccate, fino a un’aderenza piena, come valve di conchiglia sigillate sulla perla nascosta[20]. A quell’evento ha fatto seguito la lunga storia, che non possiamo ignorare, di una memoria custodita dalla Chiesa tra infinite debolezze, tradimenti, travisamenti, ma che è stata pur sempre capace di esprimere, nei momenti più tragici, figure di straordinaria purezza e santità. Non a caso il genio di una nuova «santità anonima» è pensato da Simone Weil come indispensabile per redimere, almeno in parte, la società dai suoi mali. In ogni caso è innegabile che, nel lungo cammino che va dalle prime comunità di credenti fino a oggi, salvo rare e preziose eccezioni, il lieto annuncio della presenza di un Dio Vivente in mezzo a noi è stato, troppe volte, soffocato dalla pesantezza di un apparato di potere e di una struttura dottrinaria rigida, poco disposta a recepire, come valore irrinunciabile, la libertà di coscienza e l’intelligenza del singolo uomo.
Dicendo «salvo rare e preziose eccezioni», il pensiero va non solo al miracolo del francescanesimo ma a tanti altri movimenti di rinnovamento spirituale, unificati da una comune scelta di povertà, e, proprio per questo, spesso giudicati eretici. E non si può non pensare al filone sotterraneo della mistica, una sorta di fiume carsico, tante volte soffocato dall’Istituzione e altrettante riemerso alla luce. Sappiamo che Simone Weil è dentro questo flusso nascosto e la sua accusa di totalitarismo alla Chiesa, lungi dal ridursi a polemica anticlericale, nasce dal suo essere pienamente dentro questa matrice profonda della spiritualità cristiana[21].

Ebbene, oggi più che mai, nel momento in cui appare irreversibile il processo di secolarizzazione dell’Europa e il Cristianesimo rischia di perdere sempre più la sua funzione di lievito, di fonte ispiratrice, sia in ambito pubblico che privato – al più, mantenendo un ruolo di supporto psicologico, blandamente consolatorio, o di baluardo identitario nei confronti dell’Islam – ci sembra urgente e necessario chiederci se e come esso possa di nuovo incarnarsi, in una realtà che, in apparenza, sembrerebbe non averne alcun bisogno, al punto che spesso lo rifiuta, lo deride e, in non poche realtà geopolitiche, lo perseguita. Forse questa stessa realtà, se avesse modo di conoscerlo nell’essenza del suo annuncio, depurata da ogni sovrastruttura dottrinaria, «ripulito filosoficamente» – come auspica Simone Weil – scoprirebbe che esso può dare un contributo di grande rilievo, se non altro, a quel ripensamento radicale dei propri fondamenti, a quell'analisi delle proprie manchevolezze, senza cui una società in crisi non è in grado di fare i conti con le ragioni vere del proprio malessere[22].

E tuttavia, in che modo concepirlo, per poi eventualmente proporlo, un cristianesimo incarnato che sia davvero all’altezza delle domande che il nostro tempo pone? Come spingersi oltre la dimensione esclusivamente sociale, umanitaria, dell’esperienza ecclesiale – che è un segno importante d’incarnazione, ma non può bastare – fatta d’impegno attivo nel volontariato, di soccorso alle antiche e alle nuove povertà, di promozione di iniziative di sussidiarietà rispetto a tante politiche statali inadeguate? Lo stesso impegno politico, del resto, chiede di essere ripensato e re-inventato in forme totalmente nuove, capaci di mettere alla prova l’ingegno, la creatività e il discernimento critico di ciascuno, per affrontare l’ineliminabile contraddizione tra un noi dal quale liberarci, rafforzando l’autonomia soggettiva nel giudizio che diamo sulla realtà (l’eterna esigenza di sfuggire agli artigli del «grosso animale» platonico!), e un noi tutto da costruire, quello di una sana politica, che forse, in contrapposizione a ogni culto astratto di cittadinanza, si costruisce anche attraverso la rivitalizzazione di quelle «piccole patrie» alle quali è difficile aderire senza lasciarsi fagocitare, dal momento che in tutte le comunità si annida l’insidia dell’appartenenza passiva e del conformismo. Ciò di cui si avverte davvero il bisogno è uno sforzo condiviso di «pensiero eroico», così avrebbe detto Simone Weil, volto a rifondare la democrazia, non più assolutizzandola come unico modello ideale, ma evidenziandone lucidamente i limiti e le perdite patite nei tempi travagliati in cui si è tentato di realizzarla, ed esponendola al confronto con i bisogni e i linguaggi, ancora poco decifrabili, che il tempo della crisi produce con straordinaria accelerazione.

Forse, a questo punto, può essere utile ancorare questo discorso a qualche esempio concreto. Una rifondazione della democrazia dovrebbe, se non altro, poggiare almeno su due presupposti:

  1. impegnarsi nel duro compito di risvegliare, anzitutto dentro di sé, la consapevolezza della centralità dell’etica, del suo primato rispetto a una politica ridotta a tecnica procedurale o, peggio, a ghiotta occasione d’arricchimento personale;
  2. considerare, come cristiani, irrinunciabile simile impegno, liberandolo dalle secche della retorica e dei discorsi astratti e traducendolo, per un verso, in comportamenti limpidi e coerenti sul piano personale e, per l’altro, in un’azione formativa indirizzata soprattutto alle nuove generazioni.

Questi ci sembrano prerequisiti minimi, ineludibili, per un’ispirazione cristiana che intenda ancora offrirsi come soffio rigeneratore nell’orizzonte della politica, senza riesumare vecchie pretese egemoniche nei confronti di chi non crede o di chi aderisce ad altra credenza religiosa. Ma, accanto a questa esigenza di ricollocare, in un giusto rapporto gerarchico, etica e politica, ci sembra che vi sia un’altra, assolutamente essenziale, necessità di radicamento dell’annuncio evangelico nel contesto dei problemi che stiamo vivendo: pensiamo all’economia, a quanto sarebbe utile oggi, alla luce del Vangelo, compiere una critica in profondità dei mali prodotti dal liberismo, riuscendo a tenersi a debita distanza sia da certe esperienze di collettivismo, rivelatesi non solo inefficaci ma nefaste, sia da un assistenzialismo paternalistico che ha finito spesso per creare sacche parassitarie, dissestando le finanze e diffondendo estese reti di clientelismo e di corruzione.
Insomma, la domanda fondamentale, oggi, ci pare sia questa: come concepire, e come progettare concretamente, qui e ora, da discepoli di Gesù, un tipo di società in cui l’attenzione all’altro, la prossimità, la capacità di ascolto, la lettura in profondità dei bisogni, sia individuali che collettivi (i «bisogni del corpo e dell’anima» di cui parla Simone Weil)[23], non solo trovino uno spazio adeguato, ma vengano a costituire l’asse di equilibrio, e di movimento, di tutto il sistema? C’è da chiedersi, lucidamente, attraverso quali iniziative concrete occorre dare spazio a questa possibilità, senza indulgere nei consueti sogni visionari, senza scivolare in nuovi utopismi ideologici, ma mantenendo viva la dolorosa consapevolezza dei limiti imposti a ogni azione politica dalla nostra condizione naturale di uomini, perennemente esposti alla tentazione del potere.  Non andrebbe mai dimenticato che, con questa tentazione, solo da Gesù affrontata e sconfitta, noi continueremo a misurarci fino alla fine dei tempi: è necessario tenerlo sempre presente, dal momento che la vigilanza di fronte ai propri limiti è l’unica risorsa che può renderci un po’ più saldi.

Ci s’impone, del resto, una duplice esigenza: ripensare la politica come concretezza dell’agire immediato e, al tempo stesso, come lento sviluppo di una lettura della realtà che non è già data tutta in partenza e che chiede di essere continuamente interrogata nelle sue contraddizioni. Un progetto del genere è talmente ambizioso che, paradossalmente, proprio se vuole essere realistico, non può non aprirsi al soprannaturale, nel modo in cui Simone Weil lo intendeva. Questo, però, può accadere solo se ciascuno di noi, in prima persona, comincia a lavorare su se stesso, attivandosi per andare oltre i confini della propria “naturalità” e per contribuire a un’azione politica che liberi anche gli altri, nei limiti del possibile, dall’egemonia di un’etica dell’appropriazione vissuta come normalità.
A questo punto, ci sembra che la scelta di riconoscere non i diritti individuali, ma l’obbligo di ciascuno verso i propri simili come fondamento ontologico della condizione umana, seguendo l’intuizione di Simone Weil – eccentrica rispetto alla corrente dominante del pensiero occidentale, orientata alla tutela prioritaria, spesso esclusiva, dei diritti individuali – sia un punto di svolta indispensabile, almeno per chi intenda innestare l’annuncio evangelico nel terreno scivoloso della politica[24]. Praticare l’obbligo altro non significa che porre concretamente la relazione tra noi e gli altri – ciò che vi è di più genuinamente politico –  al centro del nuovo patto di convivenza. Ma perché questo divenga, se non possibile, almeno probabile, è d’importanza vitale un lavoro paziente, instancabile di educazione, e di rieducazione personale, alla pratica delle responsabilità condivise. Non vi è altro freno al dominio incontrastato della prepotenza, individuale e collettiva, e a quel bellum omnium contra omnes in cui, giorno dopo giorno, corriamo il rischio di naufragare.

La «Professione di fede» che Simone Weil, nella febbrile riflessione dei suoi ultimi mesi di vita a Londra, abbozzò come preambolo di una nuova Costituzione, nella misura in cui pone il riferimento condiviso a una realtà «situata fuori del mondo», come presupposto necessario a un nuovo patto di cittadinanza e di democrazia, è evidente che possa, di primo acchito, suscitare perplessità in coscienze formatesi al principio irrinunciabile della separazione tra l’ambito del sacro e quello del profano o, in termini istituzionali, all’autonomia tra Stato e Chiesa[25]. Eppure, ben sappiamo quanto lei fosse immune da qualsiasi nostalgia d’alleanza fra trono e altare. La sua diffidenza, perfino il suo orrore, verso ogni idolatria e, in politica, verso ogni spettro totalitario, la preserva dal pericolo di scivolare in nuove forme, magari camuffate, d’integralismo. Detto ciò, resta innegabile che la «Professione di fede» – e l’idea stessa di una religio vissuta come energia ispiratrice capace di innervare di sé il tessuto sociale, senza mai prevaricare, senza esercitare alcuna forma di ingerenza o di delimitazione dell’autonomia del politico – costituisce una di quelle scommesse ad altissimo livello, uno di quei paradossi ai limiti dell’impossibile, una di quelle contraddizioni insanabili, valide proprio in quanto tali, che sono al cuore della riflessione di Simone Weil, e ne costituiscono, in un certo senso, la cifra più pura e originale, quella che ci costringe allo sforzo di pensare l’impensabile. Del resto, questa sua domanda torna a proporsi oggi in termini analoghi: come salvaguardare la laicità, l’autonomia del politico dal religioso e, al tempo stesso, la vitale esigenza di un’ispirazione spirituale capace di radicarsi nelle realtà di questo mondo e di vivificarle, senza snaturare la loro identità di cose profane? E in che modo, poi, un’impresa tanto problematica può farsi strada in società divenute sempre più pluraliste, nelle quali i messaggi religiosi e i modelli di comportamento non sono, né devono essere, univoci? Forse il punto di sintesi può essere raggiunto solo se si ha il coraggio di confrontarsi fino in fondo sulle rispettive diversità, attenendosi al presupposto che nessuno può accampare pretese di assolutezza o mettere in atto tentativi di egemonia nei confronti degli altri. Il rispetto, considerato da Simone Weil come fonte dell’obbligazione reciproca tra gli uomini, è merce più che mai rara nella babele contemporanea. Ma se non si raccoglie la sfida di estenderlo ai nuovi bisogni emergenti, e di preservarlo dal linguaggio della banalità e della prevaricazione, non resta altro, come cemento sociale, che non sia la quotidiana lotta per la sopraffazione degli uni sugli altri. 

Di certo, nell’Europa d’oggi, la tensione verso una civiltà capace di fare sintesi rispetto ai suoi valori essenziali appare sempre più debole: alla spinta ideale della prima stagione del processo di unificazione, nel dopoguerra, ha fatto seguito, e fa sempre più seguito, una politica di piccolo cabotaggio, povera di aspirazioni e priva di lungimiranza: è innegabile che Simone Weil avesse compreso, con straordinaria lucidità, quanto grave fosse la deriva nichilista già in atto al suo tempo: è sufficiente leggere Questa guerra è una guerra di religione per rendersene conto[26]. Per lei, a quella deriva, con i suoi effetti devastanti, non andava contrapposta né una religiosità dogmatica, arroccata sulle proprie inespugnabili certezze, né una mescolanza magmatica e informe tra credenze diverse ed eterogenee. L’unica alternativa convincente, contro le idolatrie della modernità, era data per lei dalla mistica: ovvero da un’esperienza spirituale vissuta come un cammino personale di ricerca, radicato in un’intelligenza d’amore che non sopporta di farsi estranea al mondo, ma si impegna a trasformarlo, nella misura del possibile, agendo, al tempo stesso, con distacco critico e con passione morale, dal momento che il modo in cui ciascun uomo opera concretamente nella realtà è l’unico banco di prova dell’autenticità della sua fede[27].
La mistica, certo, se intesa in questo senso, appare lontanissima dall’immagine alla quale una certa tradizione culturale ci ha abituati. Nell’itinerario spirituale, concepito e vissuto da Simone Weil, emerge un paradosso che può apparire inspiegabile: il vero politico, il politico autentico, colui che fa sua, e non tradisce mai, una politica vissuta come ricerca del bene, nei limiti dell’umano, non può che essere un mistico, cioè uno spirito che percepisce, con dolore, l’assenza di Dio in mezzo agli uomini (il suo essersi ritratto dal mondo, la sua kènosis), e tuttavia ne avverte, in modo altrettanto vivo, la prossimità, il contatto quasi fisico, da persona a persona, nella relazione intimamente sperimentata con un Vivente che si è fatto, e continua a farsi carne, e ad abitare, ultimo tra gli ultimi, silenzioso, quasi invisibile, in mezzo a noi. L’immagine che ci offre del Cristo, come «eterno mediatore», evoca un’idea di Resurrezione non tanto pensata come evento storico, accaduto in un momento particolare, trionfo definitivo sul male e perfino sulla morte; un’immagine che lascia muti e sgomenti, perfino increduli, di fronte al perdurare dell’ingiustizia, portando talora a mettere in dubbio l’effettiva azione salvifica della croce. Ci spinge invece a pensarla, quella resurrezione, come possibilità sempre in atto, come continua proposta di vita nova, che ci viene incontro, a ogni tornante della storia individuale e collettiva, proprio nel momento in cui la speranza sembra definitivamente bandita. Si tratta di un’esperienza di resurrezione che non si lascia rinchiudere nel recinto del sacro, in una zona franca, rispetto al vissuto di ciascuno di noi e alla storia collettiva, ma si rivela salvifica nella misura in cui riesce a radicarsi, come pegno di salvezza, nel nostro agire quotidiano. In questo senso, quella del Risorto non è, e non potrebbe essere, figura maestosa del trionfo, ma piuttosto segno di una fiducia inesausta, anche se fragile, nell’effettiva possibilità, per noi già qui e ora, dentro questa realtà terrena, di avviare un cammino di liberazione dall’ingiustizia e dal dolore il cui esito non appartiene né al nostro arbitrio né alla nostra potenza[28].

Nella misura in cui il Cristianesimo tenta, dunque, di incarnarsi effettivamente, si rivela una fede che non offre garanzie di salvezza e si affida tutta, nella sua debolezza, alle mani dell’uomo, perché ne facciano quel che sono in grado di farne, alla luce dell’intelligenza, dell’onestà (quella «probità intellettuale» tanto cara a Simone Weil!), della consapevolezza del limite, e perciò dell’umiltà, che non a caso è da lei considerata la più genuina virtù dello spirito.[29] La Grazia, il cui apporto è indispensabile, altro non è se non una «corda lanciata dall’alto». Essa è preziosa, ma non dà la sicurezza che il naufrago, dopo un’accanita lotta contro i flutti, si riesca a salvare, ma modifica, in modo radicale, la meccanica dei rapporti tra il corpo e la furia delle acque che tenta di sommergerlo. In questo senso, il concorso della grazia è assolutamente necessario. Quale sarà l’esito della dura lotta contro le forze che ci sovrastano rimane, però, un mistero: se così non fosse, la tragicità della storia finirebbe col rivelarsi una farsa.

  •  Come pensare a una «pulizia filosofica» del Cattolicesimo?

Veniamo ora a un altro spunto di riflessione che ci sembra utile condividere: l’esigenza, posta con forza da Simone Weil, di compiere al più presto, nel modo più approfondito, una vera e propria «pulizia filosofica» della dottrina cattolica, così com'è stata finora trasmessa, pur attraverso gli aggiornamenti interpretativi ai quali è stata sottoposta da una tradizione secolare, rispetto a cui il Concilio Vaticano II segna un punto di svolta innegabile.[30] Di certo, lei stessa si sarebbe pienamente spesa in questo arduo compito, se la morte non avesse bloccato il suo cammino di riflessione. È perciò che, nella nostra piccolezza, oggi sentiamo questo come un «obbligo» che lei, lasciando troppo presto questo mondo, ha affidato a noi tutti in eredità. Non bisogna nascondersi che si tratta di un impegno oneroso in un tempo in cui molta filosofia contemporanea tende a eludere le domande radicali, o perché le relega tra i quesiti insensati di una metafisica da cui la modernità si sarebbe definitivamente affrancata, oppure perché le considera irrilevanti rispetto a un paradigma di conoscenza fondato esclusivamente sui saperi specialistici, di cui la filosofia dovrebbe esclusivamente verificare il grado di attendibilità epistemologica. A noi, invece, questo lavoro di «pulizia filosofica» appare come una delle indicazioni più stimolanti che Simone Weil ci ha lasciato[31].
Ancor più lo è alla luce dell’idea di filosofia espressa in alcuni suoi scritti: una concezione, senza dubbio, debitrice del pensiero greco, e perciò del tutto a-sistematica, diffidente verso qualsiasi tentativo di tessere una rete di certezze e di definizioni in cui imbrigliare la realtà, rete dalla quale l’enigma del vivere e del morire sarebbe necessariamente espulso o, al massimo, «messo tra parentesi». Può esserci quindi d’aiuto, prima di accennare al tema della «pulizia filosofica del Cattolicesimo», tornare ad alcune definizioni su cosa sia la filosofia che leggiamo nei suoi scritti, in particolare nel saggio «sulla nozione di valore», del 1941, e nel Taccuino di Londra, redatto nel 1943. Partiamo dall’asserzione, quasi lapidaria nella sua limpidezza, contenuta nel primo di questi due testi: 

La filosofia non consiste in un’acquisizione di conoscenze come la scienza, ma in un cambiamento di tutta l’anima. Il valore è qualcosa che non ha rapporto solo con la conoscenza, ma con la sensibilità e con l’azione; non può esservi riflessione filosofica senza una trasformazione essenziale nella sensibilità e nella pratica di vita, trasformazione che ha la stessa portata nelle circostanze più ordinarie come in quelle più tragiche dell’esistenza[32].

La stessa identificazione tra il vivere e il filosofare e la stessa platonica diffidenza verso la staticità della scrittura, a confronto con la fluidità dell’esperienza, tornano nelle pagine del Taccuino: «Filosofia (compresi i problemi della conoscenza, ecc.), cosa esclusivamente in atto e pratica. Per questo è tanto difficile scrivere al riguardo. Difficile così come un trattato di tennis o della corsa a piedi, ma in misura superiore»[33].
Nello stesso testo, nella prima pagina, compare un’altra folgorante definizione di che cosa significhi per lei filosofare: «Il metodo proprio della filosofia consiste nel concepire in modo chiaro i problemi insolubili nella loro insolubilità, quindi nel contemplarli senz’altro, fissamente, instancabilmente, per anni, senza nessuna speranza, nell’attesa»[34].
La lettura contestuale di questi passi può aiutarci a cogliere la duplicità dei piani su cui si colloca, per lei, l’esperienza del filosofare: per un verso essa postula, come presupposto necessario, un continuo processo di trasformazione, che coinvolge la totalità dell’individuo, l’intelletto tanto quanto la sensibilità; per l’altro, ciò che è specifico del suo “metodo” è la contemplazione, un tipo particolare di contemplazione, resa possibile solo da un livello d’attenzione spinto oltre natura. Solo un ossimoro può esprimere il senso di questa esperienza paradossale: «concepire in modo chiaro i problemi insolubili nella propria insolubilità» e farlo «senza nessuna speranza» e tuttavia «nell’attesa». Qui davvero gli opposti si toccano: una tenaglia tiene stretti i due poli della contraddizione.

Cerchiamo di riportare tutto questo in ambito religioso: i misteri della fede costituiscono quell’insolubile che l’intelligenza del filosofo (o del teologo o d’ogni uomo assetato di verità) è invitata a contemplare umilmente, sfuggendo alla pretesa di stringerli nelle maglie del concetto. Solo intuendone il significato, attraverso l’esperienza di trasformazione che il contatto con quei misteri genera in lui, egli può portare avanti, per un tempo che potrebbe rivelarsi infinito («per anni»!), un percorso di conoscenza che, in ogni caso, non approderà mai alla pienezza della parola: quella parola che squadra la verità, la cattura e la de-finisce, congelandola in una formula valida per sempre e, in quanto tale, esente dal rischio di nuove interpretazioni che divergano da quella accreditata una volta per tutte. Questa natura rigida, pietrificata del dogma, è ciò che fa da ostacolo a Simone Weil, in quanto si pone in antitesi, come si è visto, con la sua concezione dinamica del mistero: realtà vivente, sfaccettata come la figura del cubo, di cui lo sguardo coglie, di volta in volta, solo le singole facce, mai l’unità della figura. Come si vede, la questione fondamentale resta pur sempre il rapporto tra ragione naturale e soprannaturale, definito in termini molto precisi (l’intero brano è da lei sottolineato): 

C’è una ragione soprannaturale. È la conoscenza, gnosi, gnῶsis, di cui il Cristo è la chiave, la conoscenza della Verità il cui soffio è inviato dal Padre. Ciò che è contraddittorio per la ragione naturale non lo è per quella soprannaturale, ma questa dispone solo del linguaggio dell’altra. Tuttavia la logica della ragione soprannaturale è più rigorosa di quella della ragione naturale (doppia sottolineatura di quest’ultimo enunciato)». Poco più avanti scrive: «La ragione naturale applicata ai misteri della fede produce l’eresia. I misteri della fede separati completamente dalla ragione non sono più misteri, ma assurdità. Ma la ragione soprannaturale esiste solo nelle anime che bruciano dell’amore soprannaturale di Dio[35].

Quel che preme evidenziare, in primo luogo, è la distinzione, qui marcata in modo netto, tra ragione naturale e soprannaturale: non due facoltà distinte di cui servirsi strumentalmente, quasi fossero due diversi attrezzi, con ciascuno dei quali si può catturare questa o un’altra porzione di realtà. Se così fosse, il suo discorso sarebbe tutto interno alla logica delle “due verità”, quella di fede e quella di scienza, parallele tra loro, quindi destinate a non incontrarsi mai veramente, e tuttavia in grado di convivere senza scontrarsi né sopraffarsi vicendevolmente. Qui la ragione è una sola, la stessa che agisce in tutti i campi del sapere, quello teologico come quello matematico o delle scienze della natura; ciò che cambia, radicalmente, è il modo in cui essa opera nei due ambiti, quello naturale e quello soprannaturale. Nel primo, la ragione si trova pienamente a suo agio perché possiede un linguaggio certo, definito, consolidato: quello dei concetti, delle categorie, degli assiomi. Non ha bisogno d’altro, se non di coerenza e di metodo, per accostarsi alla verità. Il secondo ambito, invece, richiede molto di più: esige che il soggetto pensante (il filosofo, il teologo, ogni uomo assetato di verità…) bruci «dell’amore soprannaturale di Dio». Si tratta dunque di un sapere, di una gnosis, che nasce dalla ferita prodotta dal contatto con il fuoco dello Spirito: un fuoco che investe la mente, il cuore e il corpo di chi impara a meditare in modo «soprannaturale». Siamo dunque di fronte a un’intelligenza d’amore che si esercita come passione: tensione estrema dell’intelletto e spasimo della carne, fervore mistico. Il dramma è che questa conoscenza, «più rigorosa di quella naturale», non dispone nell’uomo di un linguaggio proprio, autonomo, specifico; deve perciò far ricorso, in modo sussidiario, al linguaggio della ragione naturale. La conseguenza è che tutto ciò che di soprannaturale tenta di essere formulato con parole umane, anche le più raffinate che il pensiero teologico riesca a mettere in campo, è pur sempre impreciso, approssimativo, pieno di lacune e di enigmi. La pretesa di piegare al linguaggio della ragione naturale le verità intuite attraverso l’intelligenza soprannaturale può dar vita a un tipo particolare di eresia: comporta, infatti, il grave rischio della pretesa «idolatrica» di sottoporre a definizione ciò che, per sua natura, è e deve restare ineffabile: il mistero di Dio. Ed è perciò che il dogma, per lei, dovrebbe offrirsi come «oggetto» di contemplazione all’intelligenza umana, affinché essa lo guardi con amorosa attenzione. Come si è potuto pensare di imporlo, dopo averlo sigillato nell’involucro di definizioni scolastiche che, forse già in passato, erano poco accessibili all’intelligenza e al cuore degli uomini? E come esso può essere accolto, dalla nostra «intelligenza soprannaturale», senza che l’altra, quella ancorata alla ragione dialettica, non si senta anch’essa sollecitata a comprenderlo, e perciò pungolata dal dubbio, suo ineliminabile e fedele compagno? 
Ma fin tanto che resta incapace d’amore – non un amore tiepido, ma un amore che «brucia» e che, perciò, può anche distruggere (quanto poco «quietismo» vi è in un simile approccio alla fede!) – l’intelligenza soprannaturale non sa esprimersi, non ne ha la forza. A quel punto resta spazio solo o per il razionalismo, che liquida il mistero come pura e semplice assurdità, o per la credenza, per il fideismo, che accetta il dogma solo in quanto verità di cui si fa garante l’autorità del Magistero. Tra questi estremi esiste una terza via, che si colloca nell’orizzonte di una fede vissuta come cammino di conoscenza, consapevole della parzialità di ogni linguaggio ma, ciononostante, instancabilmente protesa verso la verità. Non a caso, nel Dernier Texte è scritto: «Non faccio mio quanto la Chiesa dice al riguardo per affermarlo come si affermano dati dell’esperienza o teoremi di geometria, ma aderisco con l’amore alla verità perfetta, inafferrabile, racchiusa in tali misteri e cerco di aprirle la mia anima affinché la sua luce possa penetrare in me»[36].

Se torniamo al punto da cui eravamo partiti, la necessità di una «pulizia filosofica» del cattolicesimo, alla luce di quanto detto, una prima indicazione che le parole di Simone Weil ci suggeriscono è l’esigenza non solo di una revisione dell’impianto disciplinare della dogmatica cattolica, ma di un atteggiamento completamente mutato nei confronti della funzione stessa del dogma, che non consiste nel “codificare” una volta per tutte la verità, ma nel custodirne e, in un certo senso, preservarne il mistero, per poterlo offrire all’attenzione di chiunque si accosti a esso con cuore puro, sia egli un credente o un non credente.
Che tutto ciò sia mille miglia lontano dall’anathema sit è perfino ovvio. Meno ovvia è un’altra considerazione, che è utile esplicitare: se al rigore della vecchia scomunica si sostituisce una sorta di paternalistica e acquiescente tolleranza verso reali o presunte deviazioni interpretative; se il bisogno di preservare, in modo staticamente conservativo, le «verità di fede» prevale sulla disponibilità all’ascolto di chiunque ponga domande scomode; se ciò accade (e di fatto continua ad accadere!), si è costretti a dedurne che ben poco è sostanzialmente mutato, se non l’esteriorità delle forme con cui si cerca di difendere la cittadella assediata. Sono più blande le parole, più accomodanti i gesti ma, dietro la pur apprezzabile rinuncia all’intransigenza, può comunque annidarsi una pigrizia, una carenza di riflessione, una superficialità, che ben si conciliano con una società nichilista, in cui anche chi crede, o è convinto di credere, non vive affatto, o vive senza alcuna passione, la ricerca della verità. Di sicuro, non la sente come ordalia, come prova decisiva cui affidare il senso della propria vita, né accetta di pagare il prezzo che una lotta del genere porta sempre con sé: molta solitudine e, spesso, molto dolore.

Se, per un verso, infatti, è necessario liberarsi da certe formule dottrinarie, rigide e astratte, è tuttavia indispensabile evitare che, al loro posto, venga a crearsi un insopportabile vuoto. Sarebbe utile, forse, lavorare maggiormente, e in forme più creative, sulle straordinarie potenzialità simboliche del linguaggio figurato, per raccontare in modo nuovo, a un uomo incredulo ma assetato di verità, che cosa può essere un’esperienza di fede che si offre come incontro tra un io inquieto e un Dio misterioso, che è lì ad attenderlo dalla notte dei tempi: 

Dio e l’umanità sono come un amante e una amante che si sono sbagliati circa il luogo dell’appuntamento. Ciascuno è lì prima dell’ora, ma sono in due posti diversi, e aspettano, aspettano, aspettano. Lui è in piedi, immobile, inchiodato al posto per la perennità dei tempi. Lei è distratta e impaziente. Sventurata se ne ha abbastanza e se ne va! Perché i due punti in cui si trovano sono lo stesso punto nella quarta dimensione … [37].

Ci sembra che queste parole, prima d’ogni altra cosa, esprimano con efficacia l’idea di un nostro essere, da sempre, dentro il grembo di una verità che ci accoglie anche quando siamo convinti di desiderare e di attendere cose completamente diverse. Ma quest'immagine esprime anche qualcosa di profondamente drammatico: ciascuno di noi può non percepire affatto la presenza dell’amato, che gli resta comunque fedelmente accanto, nella sua invisibilità. In tal caso, però, l’incontro – che in sé è dono, è grazia – si risolve in un appuntamento mancato, un’occasione sprecata, una fuga da quello che avrebbe potuto essere un contatto con la verità e, per mancanza d’attenzione da parte nostra, ci ha solo sfiorato. Qui il ruolo della libertà dell’uomo si rivela fondamentale: se l’anima giunge «distratta e impaziente» al luogo in cui l’amante-amato l’attende, è condannata allo scacco. In sostanza, un incontro autentico con Dio è possibile solo a chi compie la libera scelta di praticare, al tempo stesso, l’umile virtù dell’attesa e l’eroico sforzo dell’attenzione a quei deboli segni che a tratti, in modo del tutto inatteso, si lasciano intravedere oltre la dimensione apparente delle cose. Ancora una volta, la verità non si lascia imprigionare in una formula, ma è una realtà vivente, un incontro possibile. Se davvero le cose stanno così, è d’importanza vitale sapere come e dove incontrarla.

  •  Dove incontrare la verità?

Se ci sta a cuore la «pulizia filosofica» del cattolicesimo, diventa urgente tornare a porre a noi stessi, in modo radicale, l’interrogativo di Pilato a Gesù: «Che cos’è la verità?» Non è possibile mettere ordine nel retrobottega della dottrina, se prima non si rivolge a se stessi, in modo diretto, questa domanda. La nostra tradizione spirituale può venirci in aiuto. Ma come? Pensiamo sia utile tornare a riflettere sul modo genuinamente ebraico di intendere la verità. Essa è ‘emet ovvero abbandono fiducioso, fedeltà a un fondamento di giustizia al quale ancorare tutta la propria vita. Si tratta di qualcosa di radicalmente diverso dal significato che, nella cultura occidentale, tendiamo ad attribuire alla parola «verità» (pertinenza logica, esatta definizione concettuale, ecc.). Questo stile ebraico nel rapportarsi alla verità presuppone, come premessa necessaria, la scelta di porci in ascolto: decidere liberamente di farlo e perseverare anche nei momenti di maggior difficoltà, quando la parola giunge alle nostre orecchie o troppo flebile o impastata ad altri suoni che rischiano di comprometterne la comprensione. Ad essa si decide di accordare fiducia, anche nei momenti in cui non se ne afferra il senso, (le tante «notti oscure»...), perfino quando suona assurda alle nostre orecchie. Inevitabilmente la fede, questo tipo di fede, o è paradossale, o non è: la sua figura è quella di Abramo, posto di fronte al comando di sacrificare suo figlio. Si tratta di accettare una parola misteriosa e inquietante di cui è intuita la potenzialità liberatrice ignorando però, totalmente, dove potrà condurci.
Questa prospettiva, è evidente, appare completamente estranea all’orizzonte ristretto della ricerca di una logica a tutti i costi negli eventi umani. Del resto, nel racconto biblico, la chiamata, l’incontro personale col Dio Vivente – da Abramo a Giacobbe, fino a Gesù – giunge sempre come evento inatteso, inesplicabile, che porta scompiglio nell’esistenza quotidiana, perché mette in crisi credenze e consuetudini consolidate, rischiando di sconvolgere la ragione stessa, che si scopre incapace di dare una spiegazione credibile a ciò che accade. Se questo contatto con il divino non fosse così sconvolgente, così capace di mobilitare energie impensabili, come avrebbe potuto Abramo rinunciare a tutto ciò che possedeva e lasciarsi “catturare” da una promessa divina che, in cambio di un latte e miele invisibili e impensabili, reclamava da lui l’abbandono di tutte le antiche sicurezze? E perché poi la sua obbedienza avrebbe dovuto spingersi oltre i limiti dell’eroismo umano, fino al punto da cedere a Dio il proprio unico figlio? Non è inspiegabile, non è al di là di ogni accettabile ragione, la follia del silenzio con cui il Patriarca si appresta a restituire il dono prezioso e inatteso, che gratuitamente gli era stato concesso e arbitrariamente gli viene tolto? Qui siamo su un crinale lungo il quale la verità non ha paura di esporsi al contatto con l’assurdo. Ancor oggi, a chi legge queste pagine, viene proposto un paradigma di esperienza spirituale che va decisamente oltre i confini dell’umana ragionevolezza. Chi davvero l’accoglie, sente di trovarsi, faccia a faccia, col «Totalmente Altro»: avverte di essere al cospetto di un’immagine misteriosa, che può essere fissata solo con timore e tremore. Chiunque, a quel punto, può ritrarsene spaventato, ma può anche decidere, in piena libertà, di fidarsi e, da quel momento, lasciarsi condurre per mano, come un infante.
Riaccostarsi a questa concezione ebraica della verità, in apparenza sembra andare contro un certo spirito della modernità, persuaso, senz’ombra di dubbio, che vi siano solo verità parziali, contingenti, esposte al continuo mutare delle circostanze. Ma, se scendiamo più in profondità, ci sembra che la coscienza inquieta dell’uomo contemporaneo, quando non si perverte del tutto nel sogno idolatrico di una tecnica accolta come rimedio a ogni male, sperimenti una dolorosa povertà di linguaggio e di immagini simboliche capaci di dar voce alla domanda di verità che egli avverte, confusamente, di portarsi dentro. Forse, proprio perciò, è più che mai necessario il coraggio di una proposta di fede che non esiti a esprimersi per paradossi e non pretenda di rendere tutto immediatamente chiaro e accessibile al pensiero razionale. In questo senso, appare come inutile fatica ogni tentativo di smontare il congegno della dottrina in pezzi, in pacchetti di conoscenze, con l’illusione di renderne più agevole la comprensione, ma con il rischio di rendere l’insegnamento della fede vano, in quanto in-sipido, cioè deprivato di quel sapore che solo il contatto vivo con la drammaticità dell’esistenza può dare. Gesù, del resto, non solo non scrisse nulla, ma si servì di un linguaggio che non rifuggiva dai paradossi e faceva largo uso di similitudini, ben sapendo che, ciò che è ineffabile, o lo si sfiora con la delicatezza dei simboli o è meglio avvolgerlo nel silenzio.

Che nel lessico dell’anima esistano poche, preziose parole il cui significato è bene serbare «nel segreto», è cosa di cui Simone Weil non dubitava. Lo pensava, in particolare, per «verità, giustizia e bellezza» che, nella loro essenza insondabile, orientano la nostra attenzione verso un’unica realtà soprannaturale, quella del Sommo Bene. Decisivo, nelle nostre vite, è lo spazio che scegliamo di riservare a questa trinità di «parole-non parole»[38], la nostra capacità di assumerle come oggetti di contemplazione, su cui convogliare tutta l’attenzione di cui siamo capaci, nell’attesa che, prima o poi, uno squarcio di luce ci illumini. Vi è una verità enigmatica e profonda che non può non inquietarci in pensieri come questo: 

Ci sono tre misteri quaggiù, tre cose incomprensibili. La bellezza, la giustizia e la verità. Sono le tre cose riconosciute da tutti gli uomini come norme di tutte le cose di quaggiù. L’incomprensibile è la norma di ciò che è conosciuto. Come stupirsi se la vita terrestre è impossibile? Siamo come mosche incollate al fondo di una bottiglia, attratte dalla luce e incapaci di andarvi. E tuttavia, meglio essere incollati per la perennità dei tempi al fondo della bottiglia che distogliersi per un istante dalla luce. Luce, avrai compassione e infrangerai il vetro al termine di questa perennità? Anche se questo non succederà, restare incollati al vetro[39].

Sarebbe impossibile dirlo meglio. L’esperienza di fede si nutre di attesa della luce, ma accetta anche l’ipotesi che al termine della vita ci si possa ritrovare ancora, e per sempre, come mosche incollate al fondo della bottiglia. Lasciarsi «prendere» dalla verità vuol dire accettare che la lama a doppio taglio di questa condizione esistenziale, ove salvezza e disperazione sono due esiti ugualmente possibili, penetri profondamente dentro di noi. La verità, infatti, illumina e ferisce al tempo stesso: vi è in essa un fondo tragico, che non accetta di essere né negato né edulcorato. La verità, intesa come abbandono fiducioso, non è mai esente dalla consapevolezza del rischio di perdere tutto. 

  • Quale genio per una nuova santità?

Se dunque la verità, lungi dall’essere una costruzione dell’intelletto, è qualcosa che si fa, incarnandosi in un certo modo di essere e di agire, ne consegue che la sua verifica, la sua autenticazione è possibile solo sul piano dei risultati, quando si discernono i modi in cui essa, concretamente, morde la realtà: come la plasma o la sconvolge, in ogni caso come la modifica. Ci troviamo qui lontani da ogni ortodossia; siamo, piuttosto, nell’orizzonte di una orto-prassi, che richiede sperimentazione, addestramento, esercizio continuo su se stessi e sulla relazione con gli altri. A tutti gli effetti, in questo senso, la ricerca della verità è lavoro, dal momento che lavorare, nel suo significato umano più alto, consiste nel «ricostruire il rapporto tra sé e l’universo» plasmando una materia prima in cui entrano in gioco le nostre risorse soggettive, le circostanze della vita e il miracolo in cui può convertirsi l’incontro con i nostri simili. Il riconoscimento del valore del lavoro, come sappiamo, è l’unico elemento di civiltà di cui Simone Weil sentiva che l’Occidente non era debitore ai Greci, bensì alla tradizione ebraico-cristiana[40].
Vi è poi un altro aspetto squisitamente ebraico che, magari inconsapevolmente ma pur sempre in modo decisivo, sembra affiorare nel suo pensiero: la santità come progetto di vita, ma anche come impronta del soprannaturale, che può marcare in modo indelebile la nostra quotidianità, il fluire dei giorni e delle ore, il faticoso delinearsi di un itinerario verso la perfezione, sempre incompleto e tuttavia perseguito con fedeltà. Probabilmente la sua condanna, il suo rifiuto netto e categorico dello stato di «elezione» del popolo ebraico, si sarebbe fortemente attenuato se ci fosse stato per lei il tempo, e anche la volontà, di riflettere a fondo sulla condizione elettiva non come un insopportabile privilegio, ma come estrema responsabilità affidata da Dio al suo popolo, scelto non per dei caratteri etnici particolari, ma solo in quanto ultimo tra gli ultimi: popolo di schiavi, di derelitti, di sradicati, di infelici che, proprio in quanto tali, avrebbero potuto essere più ricettivi verso una proposta di santità.
Probabilmente, se avesse potuto meditare di più su questi aspetti, Simone Weil avrebbe letto, nel misterioso destino di un «resto di giusti» reiteratamente salvato dall’abominio o dalla catastrofe, un’immagine viva e veritiera di quell’infinitamente piccolo al quale attribuiva il potere di scompaginare gli equilibri fondati sulla forza e di immettere germi di soprannaturale nella realtà di questo mondo. E sarebbe forse giunta a leggere, nell’obbedienza dell’ebreo alla Thorà, non un atto di sudditanza o una manifestazione di formalismo, ma l’umile accettazione di un metodo di vita (lei che additava nel metodo il fulcro della conoscenza!) attraverso cui, passando per cadute ed errori, nei tempi lunghi della storia, un Dio, al tempo stesso paterno e misterioso, continua a guidare il suo popolo, con mano sicura, verso la meta di una santità condivisa. Se si considera poi che il «bisogno di ordine» è il primo dei «bisogni dell’anima» descritto nell’Enracinement, appare ancor più sorprendente, e per molti versi inquietante, la sottovalutazione, nel severo giudizio da lei dato sull’Ebraismo, della dimensione di ordine, e perciò anche di bellezza, sottesa a una pedagogia esistenziale fondata sulla Thorà[41].
Certo, a questo tentativo, forse discutibile, di ritrovare in Simone Weil alcune tracce, inconsapevoli, di ebraismo, si può opporre la constatazione che, in ogni circostanza, lei non ammise mai l’ipotesi di una sua ispirazione ebraica. Eppure, proprio in rapporto a una questione centrale, quella della verità e del suo nesso inscindibile con la giustizia, vale la pena di sondare, un po’ più a fondo, i suoi pensieri. 

  • Ma la verità non è un cammino anche per Platone?

Sappiamo, senza dubbio, che a Simone Weil era molto più congeniale il pensiero greco, in particolare Platone e i tragici. Pur nell’innegabile distanza tra filosofia greca e orizzonte ebraico, va però ricordato che, per i Greci, la verità è aletheia, ossia «svelamento»: uscita dalle tenebre e faticosa risalita verso la luce. Non possiamo non riandare al mito della caverna, su cui tante volte, nei suoi scritti, Simone Weil è tornata a riflettere: quel risalire per gradi, faticosissimo, non scelto e neppure desiderato, verso una luce che, dapprima, si offre solo in forma riflessa (troppo accecante sarebbe la visione diretta del sole, quasi come quella del Volto di Dio!) e solo infine, al culmine dell’ascesa, non necessita più di alcuna mediazione. Tuttavia, la luce solare è abbagliante, l’occhio umano non potrebbe tollerarla un istante più del dovuto; perciò il prigioniero è obbligato a rientrare nella caverna e a familiarizzare nuovamente con le tenebre. Solo che, dopo ciò che ha visto, vi ridiscende da «illuminato», con un compito del tutto nuovo: aiutare gli altri a liberarsi dalla percezione distorta, ingannevole della realtà. Anche per Platone, dunque, il soprannaturale non costituisce un elemento di conoscenza, catturato dall’intelletto, che possa cristallizzarsi in una dottrina, ma si manifesta come realtà vivente, impensabile e indicibile, verso cui si è trascinati da un’energia spirituale (Simone Weil si azzarda a chiamarla «grazia») che travolge la volontà e i pensieri di un individuo rimasto prigioniero fin tanto che aveva creduto di conoscere “che cos’è la verità”, lasciandosi invece sedurre dalle apparenze.

Siamo qui all’interno di un orizzonte di pensiero che non è né induttivo né logico-deduttivo (quindi assai lontano da Aristotele!), ma squisitamente mistico: questo, del resto, è ciò che Simone Weil pensa e afferma su Platone. La verità è una forza che richiama a sé, che cattura, che spezza le catene, imponendo non solo allo sguardo ma a tutto il corpo del prigioniero, la periagoghé, ovvero lo sforzo lacerante di girarsi su se stesso, abbandonando definitivamente la posizione originaria in cui si trovava. L’energia, la violenza con cui la fame di verità si manifesta in lui, sconfigge l’inerzia e lo costringe a porsi in cammino lungo un sentiero in salita, ripido, incerto, senza alcuna preventiva cognizione del luogo al quale potrà approdare. Utile ricordare, poi, che il Sole del mito platonico simboleggia la verità, non in quanto esattezza e coerenza razionale (l’ordine delle «verità matematiche» appartiene alla dianoia, e occupa un gradino inferiore, nell’itinerario di conoscenza-trasformazione), ma in quanto Kalon kai Agathon, Bellezza e Bontà Suprema, su cui nulla può essere enunciato in termini discorsivi. L’intelligenza umana, anche solo sfiorata da questo contatto, opera a un livello più elevato rispetto a quello della logica matematico-formale: è divenuta atto conoscitivo puro, intuitivo, noetico.
Ma che cosa scaturisce, in definitiva, da questa esperienza mistica del prigioniero? Una cognizione più circostanziata dell’essenza del Bene oppure, magari, una particolare abilità nel tradurre questo nuovo sapere nel linguaggio della filosofia? Niente di tutto ciò. Questa esperienza produce azione, movimento, obbedienza a un impulso vitale che l’energia con cui il prigioniero è entrato in contatto ha immesso nella sua mente e nelle sue membra: la forza di ridiscendere tra i propri simili, di incarnarsi di nuovo nella realtà, facendolo solo dopo aver subito una totale metanoia, un radicale mutamento interiore, un modo completamente diverso di interpretare la vita e di stare accanto agli altri.
Questo è ciò che riporta con sé chi ridiscende tra le ombre: sospinto di nuovo nel mondo, suo malgrado, obbedisce a una forza misteriosa e s’incammina. La misura di quanto la verità con cui è venuto in contatto abbia agito su di lui è data proprio da ciò che egli, concretamente, riuscirà a fare quando si ritroverà, gomito a gomito, con gli altri prigionieri che, nel frattempo, hanno continuato a ignorare la propria mancanza di libertà. A quegli uomini, tanto diversi da ciò che lui è diventato, l’illuminato dovrà farsi prossimo.

Se questa è la tradizione greca, letta attraverso il filtro del cristianesimo, alla quale Simone Weil è rimasta sempre fedele, è innegabile che venga anzitutto da lì la nozione di una verità strettamente connessa alla giustizia e alla bellezza che, non dimentichiamolo, sono le due forme sensibili nelle quali il mistero di Dio, altrimenti indicibile, si lascia intravedere nella realtà di questo mondo; sono i due metaxy in assenza dei quali realtà terrena e realtà divina resterebbero separate da un abisso incolmabile. Questo, del resto, è il  pericolo che, agli occhi di Simone Weil, corre ogni monoteismo: proprio perché, in esso, il volto divino deve restare nascosto, e il Suo nome impronunciabile, «il soprannaturale non può mai divenire oggetto di conoscenza», pena la caduta nell’idolatria (e lei ha orrore dell’idolatria!... quanto è ebraica, suo malgrado, anche in questo!...). Ma, per questo stesso motivo, la distanza tra Dio e il singolo uomo, o quella tra Lui e l’intero suo popolo, può essere vissuta come un vuoto angosciante, insopportabile. Il pensiero umano, non riuscendo a tollerarlo, si sforza di riempirlo di false immagini, oppure lo legge come assenza, come abbandono, o più spesso come punizione per le colpe commesse, individuali o collettive[42]. Questo è, agli occhi di Simone Weil, il rischio abissale del monoteismo. Perciò le appaiono indispensabili i metaxy: legami vitali, corde lanciate dall’alto, alle quali è indispensabile aggrapparsi; non vi è altra possibile salvezza che non sia quella di accogliere questo sostegno e affidarsi a esso[43].

Platone – di questo Simone Weil è convinta – aveva compreso a fondo, più di quanto i suoi scritti non dicano, il ruolo essenziale della mediazione tra naturale e soprannaturale ed era perciò riuscito a tenere assieme i due poli della contraddizione: l’assoluta trascendenza di Dio, di cui possiamo dire solo che Egli è il Sommo Bene, e la sua presenza in mezzo a noi nelle sembianze della giustizia e della bellezza, le due grandi mediatrici indispensabili per un autentico cammino di crescita spirituale. 

  • E se fosse giunto il momento di congedarci dai nostri idoli?

Al cuore di un Cattolicesimo filosoficamente purificato andrebbe forse posto l’esodo come figura di un cammino, faticoso e incerto, di liberazione sia dagli idoli collettivi che da quelli individuali. Accanto alla riflessione teologica, andrebbe avviato un radicale ripensamento della propria personale esperienza di fede: lavoro impegnativo come pochi altri, che dovrebbe coinvolgere, con lo stesso rigore, sia i laici che i religiosi. La condizione necessaria perché questa «pulizia» abbia inizio, a partire dal proprio io, è coltivare l’attitudine al distacco da sé, dalle proprie certezze e consuetudini, da quelli che sono i pericolosi automatismi della fede di cui, finché si è dentro l’involucro, è difficile prendere coscienza. Non si tratta, infatti, di sbarazzarsi di questi automatismi, ma di esserne consapevoli. Se è vero che l’atto di «separare il grano dal loglio» richiede una virtù che forse travalica l’umano, è altrettanto vero che chiunque tenti di farlo, rispetto alla propria fede, dovrebbe munirsi di molta umiltà, dedicandosi a un continuo esercizio di attenzione non al proprio io (ai suoi desideri, alle sue fantasie, alle sue inquietudini), visto che l’intimismo non fa che ingigantire l’immagine fin troppo potente che ciascuno ha di sé, ma ai frutti delle proprie azioni, che sono sempre, in ogni caso, verificabili, proprio perché s’incarnano nei fatti concreti e nelle relazioni che costruiamo con i nostri simili[44]. Solo uno sguardo che si addestri a essere, al tempo stesso, distaccato e attento, può scoprire l’equivoco, che spesso è un auto-inganno, annidato in molte forme di appartenenza religiosa: ad esempio, quando, senza rendersene conto, la fede viene vissuta come farmaco, da assumersi in dosi più o meno elevate in base al bisogno, per fronteggiare le sventure e le insidie della vita quotidiana. Oppure, ancor più, quando è indossata come una corazza di certezze, ideologiche e non spirituali, nel tentativo di preservarsi dal tarlo del dubbio e dal peso della libertà di coscienza. Ma altrettanto contagiosa, soprattutto nei periodi di più esasperata anomia sociale, è la tentazione di porsi sotto il manto protettivo di un’etica accolta come il grande codice, eternamente valido, stilato una volta per tutte da un' autorità assoluta, alla quale è riconosciuto volentieri il potere di decretare, in modo dirimente, cosa è bene e cosa è male, essendo essa depositaria delle Tavole della Legge e della loro corretta interpretazione. Anche ammettendo che, in ambito cattolico, il problema del rapporto tra discernimento individuale e Magistero, dal Novecento in poi, abbia perso la rilevanza di un tempo (è ormai giunto a compimento lo scisma sommerso?), resta il fatto che non è certo l’individualismo, con la conseguente solitudine delle scelte morali, una valida alternativa al vecchio conformismo clericale. Basta guardarsi intorno per vedere quanto grande sia il pericolo che, tra gli adulti e non solo fra i giovani, la pressoché totale assenza di alcuni essenziali riferimenti etici condivisi stia gettando gli uomini in uno stato di inerzia, d’impotenza a operare le proprie scelte, oppure, al contrario, in una sorta di divinizzazione dei desideri soggettivi: feticcio al quale sacrificare qualsiasi altro valore.

Riaffiora qui, con tutta evidenza, un tema che Simone Weil pose con forza, soprattutto negli ultimi suoi scritti: l’esigenza vitale, affinché la civiltà occidentale non collassi, di un’ispirazione spirituale condivisa, capace di innervare e nutrire di sé l’intera società, ma senza cedere alla pretesa di azzerare le differenze, uniformare i comportamenti e prevaricare sul libero discernimento individuale. Si tratta, a ben vedere, di una di quelle difficilissime forme d’equilibrio, di bilanciamento tra gli opposti, di cui lei era persuasa che solo la croce del Cristo potesse costituire il modello soprannaturale. Se ci sforziamo di immaginare alcuni modi concreti in cui una simile ispirazione potrebbe circolare in mezzo a noi, ci viene da pensare anzitutto a un lavoro, sia personale che comunitario (per piccoli gruppi) di auto-educazione, secondo due linee di sviluppo strettamente intrecciate: da una parte, esercitarsi ad affrontare, con spirito laico, l’assoluta novità espressa da molte delle problematiche etiche poste, inevitabilmente, dallo sviluppo accelerato delle scienze (pensiamo alle questioni bioetiche nelle quali spesso ci si muove come su un campo minato!); dall’altra, per i credenti e per chiunque aspiri sinceramente alla verità, sarebbe utile acquisire un’attitudine sapienziale nell’accostarsi cautamente, con cuore puro – senza troppe sovrastrutture interpretative – alla lettura della Bibbia. Bisognerebbe imparare a nutrirsi della parola rinunciando alla pretesa o all’illusione di attingervi, in modo diretto e immediato, delle prescrizioni nette sul confine tra bene e male rispetto a questioni che oggi si presentano in modo del tutto inedito alla coscienza dell’uomo contemporaneo.
Sarebbe, infatti, ugualmente ingenuo e arrogante credere che dall’insidia fondamentalista la cultura cattolica si sia liberata una volta per tutte, in via completa e definitiva, e che questo antico male, che tante ferite ha scavato nella nostra carne, costituisca oggi una tragedia per altre civiltà, quella islamica soprattutto, ma non ci riguardi più, se non in termini di distaccata osservazione di un fenomeno che ci tocca solo nella misura in cui potrebbe colpirci dall’esterno. In realtà, molte intuizioni illuminanti della teologia contemporanea sono ancora ben lungi dal diventare patrimonio del senso comune del «popolo di Dio». Forse non è ozioso, in questo senso, rendere esplicita qualche domanda:

  1. È così scontato, tra i cattolici, che non tutto, nei Sacri Testi, debba essere letto come frutto d’ispirazione divina? Non aveva forse una qualche ragione Simone Weil di sdegnarsi, di provare orrore di fronte alle stragi e alle rappresaglie ordinate dal «Dio degli Eserciti»? In altri termini, è davvero ormai chiaro, non solo agli esegeti, ma all’intera comunità dei credenti, che vi è, all’interno di quei Testi, una dimensione storico-antropologica che deve essere indagata e relativizzata ma, in sé, non costituisce oggetto di fede, bensì solo una utile fonte di documentazione?[45]
  2. Si è fatto, fino a oggi, tutto quanto è necessario per sviluppare, in chi legge la Bibbia, una intima e vitale consapevolezza interiore del fatto che «scriptura crescit cum legente»? Non a caso, parliamo di «intima e vitale percezione». A poco, infatti, può aiutarci il solo progresso intellettuale nella comprensione dei testi. Ciò che fa veramente «crescere» la sensibilità spirituale è la prova vissuta dei frutti che quella lettura fa maturare nella propria vita;
  3. È divenuta patrimonio comune dei cattolici la consapevolezza che la Rivelazione non è racchiusa soltanto nella Bibbia e nella Tradizione della Chiesa, ma ha un respiro e uno spessore universale che dovrebbe renderci attenti anche ad altre culture e altre spiritualità, non per annetterle a noi, in un sincretismo confuso e superficiale, ma per disporci, rispetto a esse, in un rapporto di fecondazione reciproca?
  4. Nell’educazione religiosa cattolica, fino a qual punto è radicata la certezza che il nutrimento che ci viene dalla Rivelazione si fa vitale solo nella misura in cui promuove la crescita di uomini liberi, in grado di pensare autonomamente, discernendo di volta in volta la via da seguire nei momenti di crisi e sapendosi differenziare nelle scelte, fino a opporsi, se necessario, all’Autorità, con franchezza e coraggio? In sintesi, in quale misura la frequentazione della Parola ha il potere di spingere chi la pratica a mettersi in gioco, in modo quanto più possibile limpido e coerente, nelle singole azioni e nel continuo ripensamento critico sul proprio agire?

Queste sono soltanto alcune delle domande che ci sembra opportuno porci, nel silenzio dell’interiorità, ma anche nel confronto dialogico con chi, come noi e assieme a noi, continua a interrogarsi. La speranza fragile di un cammino in vista di qualche barlume di giustizia e di verità, secondo noi, corre sul filo di queste domande.
 

  • Perché dovremmo rinunciare al centro?

Perché non ridare fiato alla speranza che, proprio in un mondo come il nostro, afflitto dallo smarrimento del senso del limite e dell’armonia, possa farsi strada un pensiero assolutamente contro corrente, un «infinitamente piccolo» che, alla rissa delle opinioni, contrapponga la via del silenzio e della meditazione? Simone Weil, su questa possibilità, ha qualcosa di prezioso da dirci: «Noi siamo nell’irrealtà, nel sogno. Rinunciare alla nostra immaginaria collocazione al centro, rinunciarvi non solo con l’intelligenza ma anche nella parte immaginativa dell’anima, significa destarsi al reale, all’eterno, vedere la vera luce, udire il vero silenzio»[46]. Sono parole che sollecitano a mettere ordine nelle nostre percezioni, ristabilendo l’esatta gerarchia tra realtà e sogno. Il risveglio, faticosissimo, è possibile solo a chi si eserciti a discernere la luce autentica, discriminandola dai tanti «effetti speciali» che rapiscono l’attenzione e a rieducare l’orecchio a un silenzio che sovente riempie di panico, perché non si è più capaci di accoglierlo. Siamo in un certo senso chiamati a riconoscere, come più reale di tante realtà fittizie, non quel che brucia nella fornace del tempo, ma l’Eterno, nei modi e nelle forme in cui abita già qui, ora, in mezzo a noi, e perfino nei momenti in cui pare essere del tutto assente. La scelta più difficile però – davvero «eroica» per uomini incapaci di rieducarsi al limite – è rinunciare a pensarci come centro della realtà.
Mai, del resto, le «rivoluzioni copernicane» sono state indolori. Hanno sempre imposto sacrifici insopportabili, hanno sconvolto assetti culturali consolidati e vecchi equilibri mentali dai quali è veramente faticoso staccarsi. Adesso poi, nei difficili anni che viviamo, stanno avvenendo dei mutamenti storici che ci costringono a un decentramento di tipo economico e socio-politico di cui volentieri, se potessimo, faremmo a meno: quale cittadino occidentale non allontanerebbe da sé, con fastidio e disappunto, l’amaro calice di un’Europa ormai marginale nei nuovi equilibri mondiali? Non è facile accettare la perdita di prestigio e di sicurezza economica, e  ancor meno il tramonto dell’antico ruolo egemone che abbiamo sempre esercitato, anche sul piano culturale e spirituale. Eppure, se tentassimo di negare la realtà di questa «perdita del centro», mostreremmo di essere ciechi. Allora, qual è l’alternativa? Se ci poniamo sulle tracce dell’infinitamente piccolo, diventa possibile, per noi, vederci così come siamo: fragili, disorientati, tremanti di fronte all’immensità dei problemi che incombono su di noi. Ci viene, infatti, imposto, dalle circostanze stesse, l’obbligo di rifondare la convivenza civile su basi del tutto nuove e di riformulare, in profondità, l’idea stessa di democrazia, la cui crisi non può più essere negata. Che la nostra centralità di Europei sia venuta meno, è un fatto che va compreso e accettato, con umiltà e intelligenza, in tutti gli ambiti: economico, sociale, culturale. Ma a fronte di questo, scegliere, ciascuno di noi, di decentrarsi rispetto al proprio io, rispetto all’immagine che continua a coltivare di sé – un’immagine di forza, di controllo delle situazioni, di dominio sugli altri uomini, perfino quelli che crediamo di amare – non è solo una necessità determinata dai fatti, ma una scelta di libertà, la più impegnativa e difficile che un essere umano possa fare. In un certo senso, essa va contro natura, dal momento che l’istinto vitale sempre ci porta, in quanto organismi biologici, a rinforzarci e a espanderci, non certo a indebolirci «per libero consenso».

Simone Weil sa quale audacia vi sia nel porre al centro del Cristianesimo l’immagine di un io che si auto-spodesta e, nel farlo, non compie solo un atto sacrificale, ma una professione di verità, una testimonianza di distacco dai falsi beni di questo mondo. San Francesco, mentre si libera delle sue vesti, è e rimane la metafora più limpida e coerente di questa necessità di de-centrarsi. Se poi si pensa che la perdita del centro, nel pensiero di Simone Weil, è solo il primo, doloroso passo lungo un cammino che dovrebbe condurre alla de-creazione, è evidente che questo itinerario non possiamo non pensarlo che come via crucis. Non sarebbe neanche possibile avventurarsi su una strada del genere, se non si accettasse il rischio di essere spogliati di tutto, della vita stessa; e di dover acconsentire a questo rischio, senza perdere la capacità di amare, che non elimina l’angoscia di fronte ai mali che opprimono il mondo, ma oppone il silenzio e la compassione alla collera e alla bestemmia. Questa dimensione cristologica del distacco, inteso come libera scelta di congedarsi da ogni cosa, in primo luogo dal proprio io, non è per nulla facile né da vivere né da proporre, questo è fin troppo evidente. Tuttavia, è una scelta innegabilmente, inscritta nel comandamento dell’amore, l’unico vero comandamento del Vangelo: di certo, non è mai una condizione di partenza, al massimo può porsi come esito finale, compimento ideale e perfetto di un cammino scomodo di purificazione lungo la via della verità.

Ci sembra bello chiudere questa riflessione citando per intero il passo di Simone Weil sul quale ci siamo appena soffermati: 

Svuotarsi della propria falsa divinità, negare se stessi, rinunciare ad essere con l’immaginazione il centro del mondo, riconoscere che tutti i punti del mondo sono centri a pari titolo, e che il centro vero è situato al di fuori del mondo, significa acconsentire al regno della necessità meccanica nella materia e al regno della libera scelta al centro di ciascuna anima. Un simile consenso è amore. La faccia di questo amore rivolta alle persone pensanti è carità verso il prossimo; quella rivolta alla materia è amore per l’ordine del mondo, ovvero – che è poi la stessa cosa – amore per la bellezza del mondo[47].

 

Note

[1] Un intero quaderno dei «CSW», che riprende gli interventi e il dibattito di un incontro avvenuto il 2 marzo 2006, in cui gli Ebrei erano numerosi ed agguerriti, si intitola: Simone Weil antisémite? Un sujet qui fâche?, settembre 2007.

[2] Q III, p. 289. Nella Lettera questo giudizio su Israele è subito proposto e sviluppato, dopo la sofferta dichiarazione d’amore per la Chiesa, nei punti 1 e 2 dell’elenco, pp. 15-19.

[3] Q IV, p. 377.

[4] «La conception weilienne de la création. Rencontre avec la Kabbale juive», in Gilbert Kahn (a cura di), Simone Weil Philosophe, historienne et mystique, Aubier Montaigne, Parigi, 1978, p. 154.

[5] Si tratta di Notre combat (dicembre 1941/gennaio 1942), Les racistes peints par eux-mêmes (febbraio-marzo-aprile 1942) e, presumibilmente, anche il quaderno intitolato Antisémites ( aprile-maggio 1942 ).

[6] Lettera a Huguette Baur, inizio di settembre 1940, «CSW»,  n° 3, settembre 1991, p. 201.

[7] Ibidem, pp. 201-202.

[8] Bases d’un statut des minorités françaises non chrétiennes et d’origine étrangères, inedito, dattiloscritto, Fondo Simone Weil, Biblioteca Nazionale di Parigi.

[9] Ibidem, p. 3.

[10] Ibidem, p. 4.

[11] Ibidem, p. 3.

[12] «Simone Weil contre la Bible», Difficile liberté, Albin Michel, Parigi, 1983, p. 182.

[13] Chez les Weil. André et  Simone, Buchet Chastel, Parigi, 2009, p. 227. Di questo libro è ora disponibile la versione in lingua italiana, a cura di Claude Cazalé Bérard, intitolata Casa Weil, Lantana editore, Roma, 2013, impreziosita da un ricco Album di famiglia.

[14] Ibidem, p. 196.

[15] Simone Weil, La haine juive de soi?, «CSW», n° 4, dicembre 1991, p. 327.

[16] Questa immagine suggestiva è affiorata alla mente di una partecipante, particolarmente interessata all’Ebraismo, durante un gruppo di lavoro sul pensiero di Simone Weil. Ultimamente, è stata pubblicata una raccolta di scritti di Simone Weil, volta a porre in evidenza il difficile rapporto da lei intrattenuto con le radici ebraiche. Ci pare di poter affermare che testi scelti siano inadeguati all’importanza del problema e l’introduzione del curatore poco argomentata, in particolare laddove egli scrive: «Sono convinzioni, queste della Weil (si tratta delle idee espresse nel commento al documento dell’OCM sulle Minoranze nazionali e sugli Ebrei), che tramano in profondità tutta l’ultima fase della sua riflessione filosofica, politica, religiosa, e che affiorano in modo limpido nei tratti soffocanti e illiberali della nuova Europa sognata nell’Enracinement» (cfr. S. Weil, Il fardello dell’identità. Le radici ebraiche, a cura di Roberto Peverelli, Medusa, Milano 2014, p. 6). Questo drastico giudizio appare tanto più sorprendente se si pensa che autori come Mounier, Camus ed Eliot, proprio nell’Enracinement, hanno individuato un testo incontournable per la ricostruzione dell’Europa.

[17] Questo è l’intento sotteso a tutta la critica che Simone Weil sviluppa nei confronti del cattolicesimo e della Chiesa,  ribadito nell’ultimo paragrafo della Lettera, p. 85.

[18] Sul significato di questa formula, Simone Weil si sofferma, in LR, al punto 20 della sua requisitoria, pp. 46-48, e al punto 21, pp. 48-49.

[19] La dismisura investe tutti gli aspetti della realtà contemporanea e ne costituisce perciò una chiave di lettura: «La vita moderna è in balia della dismisura. La dismisura invade tutto, azione e pensiero, vita pubblica e privata. […] Di qui la decadenza dell’arte. Non vi è più alcun equilibrio. […] Il movimento cattolico rappresenta parzialmente una reazione; per lo meno le cerimonie cattoliche sono rimaste intatte. Ma anche esse sono senza rapporto con il resto dell’esistenza. Cercare un equilibrio tra l’uomo e se stesso, tra l’uomo e le cose» (Q I, p. 164).

[20] La coincidenza piena di umano e divino, nella figura del Cristo, è l’evento finale di una parabola terrena che si compie pienamente sulla croce: «Uso teologico della nozione di limite. L’istante in cui il Cristo spira sulla croce è l’intersezione del creato e del creante. Fino a quel momento l’unità della divinità e dell’umanità in lui doveva essere in certo modo virtuale, tendente verso la pienezza della realtà toccata solo in quell’istante (pienezza che è impossibile toccare – limite ad un tempo possibile e impossibile, come nei paradossi di Zenone o nelle serie infinite di somma finita) (Q IV, p. 64).

[21] La dimensione mistica del Cristianesimo, e di qualsiasi tradizione religiosa autentica, compresi il Pitagorismo e l’Orfismo, è un aspetto su cui Simone Weil non cessa mai di riflettere, convinta che solo nella mistica il Cristianesimo raggiunga la sua “verità”: cfr. LR, punto 22, p. 49.

[22] Il malaise dell’intelligenza, di cui parla Simone Weil, va preso in seria considerazione in vista di un cristianesimo veramente adulto. Roberta De Monticelli ha preso in esame questo problema in un volumetto appassionato e lucido: cfr. Sullo spirito e l’ideologia. Lettera ai cristiani, Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2007, in particolare il cap. III, intitolato «Il disagio dell’intelligenza. Fede e verità», pp. 101-156.

[23] PR, p. 16-45.

[24] Il riconoscimento dell’obbligo, al posto dei diritti, come fondamento della convivenza tra gli uomini, come si sa, è al centro della riflessione di Simone Weil soprattutto negli ultimi scritti. Oltre che ne L’Enracinement, la centralità dell’obbligo resta sullo sfondo degli abbozzi costituzionali redatti nel periodo londinese : «Étude pour une déclaration des obligations envers l’être humain», «Remarques sur le nouveau projet de Constitution», «Idées essentielles pour une nouvelle Constitution», Écrits de Londres et dernières lettres, Gallimard, Parigi, 1957. Questi testi, tradotti e commentati dagli scriventi, si trovano ora in SL.

[25] All’inizio della Professione di fede, preambolo allo «Studio per una dichiarazione degli obblighi verso l’essere umano», si legge: «Vi è una realtà situata fuori del mondo, vale a dire fuori dello spazio e del tempo, fuori dell’universo mentale dell’uomo e di tutto ciò che le facoltà umane possono cogliere. A questa realtà corrisponde, al centro del cuore umano, l’esigenza di un bene assoluto che sempre vi abita e non trova mai alcun oggetto in questo mondo. Essa, quaggiù, è resa manifesta dalle assurdità, dalle contraddizioni insanabili, contro le quali urta sempre il pensiero umano quando si muove esclusivamente in questo mondo. Come la realtà di questo mondo è l’unico fondamento dei fatti, così l’altra realtà è l’unico fondamento del bene. È unicamente da essa che discende in questo mondo tutto il bene suscettibile di esistere, ogni bellezza, ogni verità, ogni giustizia, ogni legittimità, ogni ordine, ogni subordinazione del comportamento umano a degli obblighi»  (Ibidem, p. 114).

[26] Ibidem, pp. 68-76.

[27] Può essere utile rileggere questa ben nota considerazione : «Non è dal modo in cui un uomo parla di Dio, ma dal modo in cui parla delle cose terrestri, che si può meglio discernere se la sua anima ha soggiornato nel fuoco dell’amore di Dio» (Q IV, p. 183).

[28] Riflettiamo su queste parole : «Dio ha sofferto al posto dell’uomo – questo non significa che la sventura del Cristo abbia diminuito anche solo di poco la sventura degli uomini, ma che mediante la sventura del Cristo (nei secoli anteriori come nei secoli posteriori) la sventura di ogni sventurato assume un significato e un valore di espiazione, se solo egli lo desidera. La sventura assume allora un valore infinito che può venire solo da Dio» (Q IV, p. 191).

[29] Riportiamo qui di seguito uno dei molti pensieri dedicati all’umiltà : «La chiave della spiritualità nelle diverse occupazioni temporali è l’umiltà. Le umiliazioni distolgono dall’umiltà coloro nei quali non vi è almeno un inizio d’amore soprannaturale. La cattiva umiliazione induce a credere di essere nulla in quanto sé, in quanto un certo essere umano in particolare. L’umiltà è la conoscenza di essere nulla in quanto essere umano, e più in generale in quanto creatura. L’intelligenza vi ha una gran parte. È necessario concepire l’universale » (Q II, p. 216).

[30] Un teologo, prematuramente scomparso, che ha preso sul serio questo suggerimento di Simone Weil è A. Naud, Le dogme et le respect de l’intelligence. Pladoyer inspiré par Simone Weil, Fides, Québec, 2002. In particolare, segnaliamo il cap. VI, « Du Vatican II à Simone Weil», pp.117-147. Avevamo segnalato questo scritto coraggioso e ci auguriamo che i teologi per primi lo prendano in seria considerazione.

[31] La sua «vocazione» a restare sulla soglia della Chiesa trova ragione anche nell’esigenza, avvertita non solo come assillo intellettuale, ma come premessa indispensabile per poter eventualmente entrare, con piena convinzione, nella Chiesa: «La ripulitura filosofica della religione cattolica non è mai stata fatta. Per farlo è necessario essere dentro e fuori» (Q II, p. 268-69). Questa «ripulitura filosofica della religione cattolica» appare indispensabile per superare il disagio dell’intelligenza di cui parla al punto 28 della LR e in AD.

[32] «Quelques réflexions autour de la notion de valeur», questo testo molto importante, pubblicato per la prima volta in Œuvres, Quarto Gallimard, Parigi 1999, è ora opportunamente ripreso nelle Œuvres complètes, Écrits de Marseille, vol. 1, p. 53-61, cit. p. 57. La traduzione è nostra.

[33]  Q IV, p.396

[34] Q IV, p. 363

[35] Q IV, p. 134, in corsivo nel testo. La dialettica tra ragione naturale e amore soprannaturale è fondamentale nel porsi di fronte alle verità della fede, ai dogmi. Qui sta il vero dissenso di Simone Weil rispetto alla Chiesa, alla quale, per lei, «si deve un atteggiamento permanente e incondizionato di rispettosa attenzione, ma non una adesione» (p. 61). Quanto afferma nei punti 26, 27 e 28 della Lettera va proprio nella direzione di una «pulizia filosofica» del Cattolicesimo.

[36] LR, p. 91.

[37] Q IV, p. 178.

[38] Va tenuta presente la convinzione che esistano, sia linguaggio verbale che in quello matematico, degli «invarianti» che nessun segno correlato (parola o cifra) è in grado di esprimere pienamente. Ma il trascurarli e dimenticarli mette a serio rischio i fondamenti spirituali di qualsiasi civiltà. Infatti «I lògoi àlogoi, gli invarianti innominati, costringono ad una gerarchia interiore verticale» (Q II, p. 32) Se intendiamo l’invarianza come sinonimo di eternità, e se teniamo conto del fatto che la capacità umana di costruirsi una scala gerarchica di valori è vista da Simone Weil come lo scopo principale della filosofia, questo pensiero ci si offre in tutta la sua enigmatica profondità.

[39] Q IV, p. 343.

[40] Illuminanti, in tal senso, queste considerazioni : «Del resto, la nozione di lavoro considerato come un valore umano è di sicuro l’unica conquista spirituale che il pensiero umano abbia fatto dopo il miracolo greco; era forse questa l’unica lacuna di quell’ideale di vita umana che la Grecia aveva elaborato, lasciandolo dietro di sé come un’eredità imperitura» (R, p. 106).

[41] Va tenuto presente il legame misterioso che Simone Weil evidenzia tra l’esigenza interiore di ordine e il desiderio di ricerca del bene, che spinge verso l’ignoto : «Se incessantemente teniamo presente allo spirito il pensiero di un vero ordine umano, se vi pensiamo come ad un oggetto al quale si debba sacrificio totale quando se ne presenti l’occasione, saremo nella situazione di un uomo che cammina nella notte, senza guida, ma che pensa continuamente alla direzione che vuol seguire. Per un tale viandante, grande è la speranza » (PR, p. 20).

[42] La critica ad Israele colpisce al cuore il tema del monoteismo : «Non può esserci contatto da persona a persona tra l’uomo e Dio se non attraverso la persona del Mediatore. Senza di lui la presenza di Dio all’uomo non può essere che collettiva, nazionale. Israele ha nello stesso tempo, d’un solo colpo, scelto il Dio nazionale e rifiutato il mediatore. Israele ha forse teso di tanto in tanto al vero monoteismo? Ma ricadeva regolarmente, e non poteva non ricadere, nel Dio tribale» (Q III, p. 302). Tuttavia, vi è in lei l’onestà intellettuale di riconoscere che: «Il rapporto tra Dio e la società civile, tra Dio e il popolo, è un problema che tutte le società antiche si sono poste e hanno risolto in modi diversi» (Q IV, p. 341). Il Cristianesimo, a suo giudizio, avrebbe sciolto questo dilemma teologico grazie alla figura di Gesù, eterno mediatore tra noi e il Padre, ma anche attraverso il dogma trinitario, nel quale la relazione fra le Persone è forma perfetta di mediazione tra la trascendenza di Dio e la realtà dell’amore incarnata in mezzo agli uomini. Viceversa per lei, nell’Ebraismo, l’assenza di mediazione fra cielo e terra è totale e, proprio per questo, generatrice di illusione o di violenza: «In mancanza di metaxy, la spada aveva il ruolo di metaxy; il terrore e la speranza, gli orrori sanguinosi e le cascate di latte e miele. Non poteva essere diversamente. Li si educava con i massacri che si faceva loro compiere come con quelli che erano loro inflitti» (ibidem). Bisogna davvero compiere uno sforzo per non lasciarsi indurre a leggere, in queste parole, una analogia con la realtà attuale di Israele.

[43] Ricordiamo la bellissima metafora del naufrago, simbolo della condizione umana sospesa tra Grazia e possibilità definitiva di perdersi: «L’uomo è come un naufrago aggrappato ad una tavola, sballottato dal mare. Non c’è modo di produrre alcun cambiamento al movimento che il mare gli imprime. Dio lancia una corda dall’alto del cielo. L’uomo l’afferra o non l’afferra. Se l’afferra, egli resta sottoposto alle pressioni del mare. Ma queste pressioni si combinano con il nuovo fattore meccanico costituito dalla corda, cosicché le relazioni meccaniche tra l’uomo e il mare sono cambiate. Le mani sanguinano per la stretta sulla corda. Talvolta il mare lo sballotta al punto che egli la molla e la riprende. Ma se egli la respinge volontariamente, Dio la ritira» (Q III, p. 404).

[44] Sappiamo quanto Simone Weil diffidi dell’intimismo : «Tentazione della vita interiore (tutti i sentimenti che non sono immediatamente bevuti dal pensiero metodico e dall’azione efficace). Bisogna annoverarvi tutti i pensieri, tutte le azioni che non raggiungono l’oggetto» (Q I, p. 182).

[45] Se su queste difficoltà, presenti nella Scrittura, che Simone Weil denuncia nelle prime pagine della sua Lettera, l’esegesi attuale ha fatto decisi passi avanti, non pare che si abbia sufficiente coraggio di tradurre questi progressi nell’annuncio e nella catechesi. Essi sembrano destinati soltanto agli addetti ai lavori.

[46] «Forme dell’amore implicito di Dio», AD, p. 119.

[47] Ibidem. Un’acuta e, per molti aspetti, originale e ancora poco conosciuta analisi della mistica in Simone Weil è presente in F. Castellana,  Simone Weil. La discesa di Dio, Edizioni Dehoniane, Napoli, 1985.  Sempre sul tema della santità e della mistica, segnaliamo infine l’articolo di Maria Clara Lucchetti Bingemer, Mistica e santità. Genio e pratica dell’amore, in «Concilium», 49, n° 3, 2013, pp. 102-120.