di Piero Stefani   

Conversione significa passaggio da una fede a un’altra; vocazione tensione a vivere una modalità della stessa fede. Se si parla di vocazione di Paolo e quindi di ogni “cristiano”, quali conseguenze per la fede in Gesù Cristo Salvatore? se Gesù non ha fondato una nuova religione, la sua morte e resurrezione porta una novità (e quindi una fede) radicalmente nuova? il termine vocazione non è troppo limitativo? Cosa comporta il cambiamento dei termini? 

Il termine «conversione» è dotato di tre significati principali:

1. passaggio da una comunità di fede a un'altra; 2. il cambiamento di vita di una persona o di comunità che decidono di abbandonare la «via dei peccatori»; 3. un impegno di purificazione e rinnovamento quotidiano della propria vita spirituale.
La chiamata alla conversione e al «cambiamento di mentalità» (verbo metanoeō)  è posto all'inizio della predicazione di Gesù: «Convertitevi e credete al Vangelo» (Mc 1,15). Si tratta di un appello sempre attuale per ogni credente. La chiamata di Paolo di Tarso però non si conforma a questo andamento. A suo fondamento, come affermato da lui stesso (cfr  Gal  1,11-15) non c'è alcun processo di tipo penitenziale, c'è solo l'inattesa rivelazione del Signore risorto che costituisce Paolo apostolo.

Nel primo capitolo della lettera ai Galati, un brano, sicuramente autentico e autobiografico, Paolo parla di un'improvvisa rivelazione e di una chiamata avvenuta per scelta divina senza riferirsi ad alcun processo di pentimento personale relativo alla sua precedente condotta. La versione narrativa presente negli Atti degli Apostoli (9,1-19) conferma questo andamento. Paolo ha sempre affermato la propria perdurante ebraicità  (cfr. Gal 2,15; Fil 3,5-6). Anzi, lo stesso qualificarsi come «apostolo delle genti» (Rm 11,13) presuppone il mantenimento della sua appartenenza ebraica. Le genti (ta ethnē) sono infatti tali solo rispetto al popolo d'Israele. In conclusione si deve sostenere che Paolo apostolo è un ebreo che annuncia Gesù Cristo soprattutto ai non ebrei.

L'espressione «Conversione di San Paolo» risulta impropria in base alla testimonianza di Paolo stesso. Inoltre essa può ingenerare l'errata convinzione che Paolo si sia convertito in quanto ha cessato di essere ebreo per diventare cristiano. Non è così; in seguito a una chiamata, che ricorda quella dei profeti (specie Geremia cfr. Gal 1,15; Ger 1,5), Paolo è diventato infatti non già un cristiano bensì un ebreo credente in Gesù Cristo. È anacronistico parlare di cristianesimo (espressione ignota agli scritti neotestamentari) in riferimento alla prima metà del I secolo d.C. Dal canto suo, lo stesso termine «cristiani» compare solo tre volte e mai in relazione a un' autodefinizione compiuta dai credenti stessi (cfr. At 11, 26; 26,28; 1Pt 4,16).

Come processo di purificazione e rinnovamento, la conversione è una realtà che riguarda ogni persona e ogni comunità di fede; tuttavia, proprio per questo motivo, occorre porre in luce la qualità diversa della chiamata apostolica vissuta da Paolo. Il termine «vocazione» va inteso perciò nel senso di «chiamata».