Il prossimo numero della rivista Esodo sarà incentrato sulla figura di Gesù indagata da vari punti di vista. In questo percorso di ricerca, abbiamo anche chiesto di rispondere alla domanda “Chi è Gesù per te?”. Questa di Carlo Rubini è una prima risposta.

“Chi è Gesù per te?”, già la domanda per come è formulata dice molto, sia di chi la formula e sia dell’implicita condizione della persona a cui è rivolta.
Infatti, con il verbo al presente, “chi è” è del tutto evidente che chi pone la domanda è persona di fede. Perché è solo il cosiddetto “Gesù della fede” che, da chi crede in lui, è considerato il vivente, una condizione che giustifica il verbo al presente assegnato a una persona o a un’entità che c’è, esiste e non semplicemente che è esistito.

Chi risponde, nell’intenzione di chi chiede, dovrebbe anche lui credere e gli si lascia solo il margine, e già non è poco, di come tradurre l’esperienza di fede dalle parole del vivente. Dal che siamo già comunque in una situazione svincolata dal dogma di fede (con quel “per te”), che lascia libertà interpretativa sul ‘come’ e sul ‘cosa’, anche se non la lascia troppo sul fatto che Gesù sia un vivente che puoi vedere e sentire.

Qui sta il punto.
Per quanto ci sia sempre il tentativo di unificare il Gesù della fede con il Gesù storico – Ratzinger Papa aveva a lungo insistito su questo punto – è evidente che sono due figure distinte.

Su quello storico non pochi, quasi mai storici, hanno avanzato dubbi concludendo che se ne sa molto poco e quel poco, secondo questi, è incerto e contraddittorio, storicamente inaffidabile. A me pare al contrario che ciò che si sa di Gesù storicamente non è invece così poco, se riferito a una persona di umili origini, vissuto in villaggi periferici in una terra a sua volta situata alla periferia di un immenso impero. Se storici antichi, cittadini di quell’impero e dall’impero riconosciuti, non proprio gli ultimi venuti insomma, lo citano anche se di passaggio rispetto al nulla delle moltitudini anonime che gli stanno attorno, inghiottite, queste sì, nel nulla del vortice del tempo, vuol dire che il personaggio un certo rilievo storico l’aveva avuto. Quel che c’è in definitiva mi pare una base storica sufficiente per determinare una presenza effettiva, se poi è incrociata con la rilevanza data a quella figura dagli evangelisti.
Il fatto è che di quella figura storica si sono appropriate le narrazioni evangeliche – e già questo conferma l’importanza del personaggio - che hanno rielaborato le sue parole, i suoi gesti e l’intera sua vicenda, fin dall’inizio del loro racconto e intenzionalmente, solo in chiave teologica; come è dimostrato dalle numerose incongruenze tra un vangelo e l’altro, evidentemente considerate, ammesso che se ne rendessero conto, da loro inessenziali, essendo i riceventi del racconto sempre persone diverse che non avevano letto e ascoltato, immagino, se non uno dei quattro, o più, evangeli: incongruenze e contraddizioni palesi e letture forzate delle vicende di Gesù per fargli adempiere profezie dell’Antico testamento. Il Gesù della fede è già nei Vangeli in definitiva, sovrapposto ma non distinto da quello storico. La sensazione, infatti, è che gli Evangelisti sovrappongano coscientemente le due figure perché è altrettanto evidente che, mi si consenta il bisticcio, per la fede il Gesù della fede ha bisogno di quello storico realmente esistito, se è esistito, e dell’intera sua vicenda fatta credere come realmente accaduta nei modi che sono stati descritti. 
La storicità non della figura Gesù, ma delle narrazioni evangeliche della sua vicenda, quella si che è dubbia e complessivamente non verosimile, anche se gli Evangelisti te la raccontano con la studiata fermezza dei testimoni oculari, ciò che invece non erano mai stati. Perché in tempi in cui la gente da evangelizzare non conosceva neppure la propria data di nascita, figuriamoci se sapeva fare i conti sul fatto che gli evangelisti non erano contemporanei agli eventi che in qualche modo davano a intendere aver veduto.
E gli evangelisti fanno infatti intendere che ciò che dicono è anche storico, sovrapponendo, devo dire con una certa maestria, storia e teologia. Lo stesso vale per San Paolo che, riferendosi all’evento centrale della Resurrezione, invita con forza a credere a quell’evento. Cioè a credere che la Resurrezione sia stato un fatto accaduto veramente. Perché quando si crede a qualcosa si crede che quel qualcosa ci sia stato nel tempo reale, non in un sovramondo, e che ci sia stato secondo le leggi di natura, anche quando va contro le leggi di natura. Che è quello che si vuol comunicare: non esiste solo la natura dell’esistente apparente, ne esiste un’altra che la sovverte e fa riferimento all’intervento divino, all’incarnazione, alla morte/resurrezione. E per sovvertirla deve per forza trasgredire dati accertati, se no non regge. Il paradosso della croce - così a me adolescente lo presentavano i miei formatori di Gioventù Studentesca, vulgo “GS” – per esser tale ha bisogno di sovvertire il reale/storico, ma essendo a sua volta reale/storico.

C’è una costante miracolistica nella vita e nella morte di Gesù, Resurrezione compresa, ma per credere ai miracoli è necessario avere cognizione anche empirica delle leggi di natura (normalmente un cieco dalla nascita non può mai tornare a vedere e questo la gente del tempo di Gesù lo sapeva bene, anche se analfabeta e lo sapeva solo per esperienza, se no il miracolo non reggeva) e vedere che la sovversione di tali leggi ci sia stata veramente. Un pasticcio voluto.
Da tutto ciò ne consegue che il credere al “Gesù della fede” ha il bisogno determinante di confermarne la storicità non tanto della sua esistenza, che anche per me storicamente difficilmente è in discussione, ma delle sue azioni fino alla morte e alla resurrezione. La sovrapposizione, inaugurata dagli evangelisti stessi, continua anche oggi.
E se ne capisce la ragione. Se non c’è storicità degli eventi entra in campo una lettura solo metaforica e simbolica e leggendaria degli atti di Gesù, che a me può anche star bene, ma che non soddisfa certo chi si riferisce solo e sempre al Gesù della fede, bisognoso di un ancoraggio a un evento fattuale.
Mi pare che i canoni che si sono consacrati nella tradizione mantengano questa sovrapposizione e per le stesse ragioni, al di là di tutte le diatribe e dispute dei primi secoli tra interpretazioni che lasciavano però inalterata la necessaria ambiguità.
Certo nell’educazione religiosa che tutti noi abbiamo ricevuto, al centro c’è il vivente, il Gesù della fede, ovviamente ridotto a dimensione iconografica infantile e semplificata, ma con attribuzioni teologiche non facili e avvolte in un alone di magia. Si pensi alla frase che accompagnava il viatico della prima eucarestia, una sorta di iniziazione ben più coinvolgente del Battesimo: “è Gesù che viene dentro di te” – anche qui con i tempi sempre al presente (“è”, “viene”) - ed era il martellamento che nella preparazione mi facevano a San Lorenzo di Mestre dove ho preso la “PrimaComunione”, due grandi sacerdoti a nome Gian Carlo Bonaldo e Aldo Da Villa, coadiutore il primo, parroco il secondo, che peraltro mi aveva battezzato nove anni prima a San Geremia.  Con questa frase (“Gesù che viene dentro di te”, cioè “di me”), che poi mi ri-martellava al catechismo Suor Savina, capace di semplificare a dimensione più elementare il concetto dei due sacerdoti, non ho mai pensato, prima di ricevere l’eucarestia, a un’assunzione corporale diretta, a un cibarsi quasi cannibalico; ho sempre pensato veramente che avvenisse una mia trasformazione di stato, come il mutamento da acqua a ghiaccio o da vapore ad acqua, e che il vivente si impossessasse in qualche modo della mia persona; il che significa che avevo introiettato in modo adeguato almeno un aspetto del Gesù delle fede, qualcosa che avveniva più o meno con lo stesso processo ben noto degli indemoniati, ma all’incontrario, con il benigno che entrava a possedermi al posto del maligno.
Quando poi non è accaduto niente di tutto ciò, mi sono accorto tuttavia che mi rimaneva una maggior predisposizione alla bontà e all’altruismo, non una cosa da poco, il possesso del benigno in qualche modo lo sentivo. Sicuramente da quel momento c’è stato uno scarto, una prima interiorizzazione di un messaggio, che è poi rimasto, modificando e nello stesso tempo rendendo più complesso il rapporto con la personalità di Gesù di Nazareth. Si sono poi sovrapposte altre suggestioni importanti, la politicizzazione di Gesù negli anni ’70, preceduta dalla sua umanizzazione, che per me è risalita al disco del cantautore genovese Fabrizio De Andrè “la Buona Novella”. Umanizzazione che è cosa ben diversa dalla politicizzazione. Ma anche ben diversa dalla storicizzazione di Gesù.

Come distaccarsi da tutte queste immagini e suggestioni? E soprattutto il percorso verso il Gesù umanizzato ha intaccato il Gesù della fede che avevo acquisito con la magia dell’eucarestia? Sì e no.
Ripeto. Il fatto che un fenomeno come l’eucarestia in un fanciullo di nove anni non avesse prodotto effetti speciali nella corporeità - quasi mi aspettassi, nell’attesa, un cambiamento di stato - ma mi abbia per la prima volta indotto a pensare come ‘bene’ il voler bene agli altri (il ‘benigno’ che agisce, appunto), l’ho sempre ritenuto qualcosa di legato ad una ‘alterità’ anche al presente, qualcosa che ‘agisce’. La mia successiva evoluzione critica sul Cristianesimo non ha intaccato questo fatto di fondo che è in grado di andare oltre una semplice umanizzazione della figura di Gesù con qualcosa che continua a restare per sempre. Se proprio si vuole ho anche approfondito ciò che questa figura mi ha prodotto inizialmente. Non una semplice attenzione all’‘altro’ ma le ragioni apparentemente irragionevoli dell’attenzione all’altro. Oggi riconosco lo ‘zoccolo duro’ di quell’azione nell’impostazione che nel Vangelo Gesù dà a chi è ‘prossimo’, per me e per noi. Vediamo.

Nel Vangelo delle Beatitudini si intende fin dalla prima beatitudine citata, nel Vangelo di Matteo, che l’attenzione è ad una radicalità nello spirito, una testuale ‘povertà’ di spirito. Se conoscessi la lingua originale con cui la frase è stata riportata potrei discettare meglio, ma sono quasi certo che quel termine ‘povertà’ potrebbe essere tradotto con un termine migliore. Infatti, può anche fraintendersi, perché ‘povertà di spirito’ può anche intendersi come una quasi ‘assenza di spirito’; il che oggi, frainteso appunto, viene usato anche come offesa o giudizio negativo. Io penso invece che il significato vero della parola tradotta come ‘povertà’ sia ‘essenzialità di spirito’, uno spirito spogliato e destrutturato che guarda oltre. In grado di accogliere la ‘giustizia’, non a caso parola, ‘giustizia’, che insiste in quasi tutte le beatitudini. E si intende allora cos’è il senso di giustizia che si eredita da questa parola, che parla ancora. Emerge infatti dal senso di dignità che Gesù assegna non solo ad ogni uomo, ma anche a tutto “ciò che è”; il credente classico in Dio, e non è il mio caso, direbbe, dignità che Gesù assegna a tutto il creato. Tutto “ciò che è”, è degno di essere e altro non è che l’immagine dell’intera essenza, il credente integrale classico direbbe “tutto ‘ciò che è’ è l’immagine di Dio”.
Questa giustizia va oltre l’idea di uguaglianza perché ogni elemento “che è” è diverso dagli altri e non uguale e però ugualmente degno, e in questo senso giustizia e uguaglianza sono complementari: uguaglianza nell’esser degni, per il credente integrale classico sarebbe “uguaglianza davanti a Dio”. La giustizia delle Beatitudini si rivolge quindi a tutti e a tutto ed è riduttivo pensarla solo per una categoria di più sofferenti degli altri, men che meno solo per una categoria di offesi perché poveri materialmente. Infatti, l’altro passo del Vangelo, sempre di Matteo, sul fatto che non si “vive di solo pane” chiarisce bene il concetto, laddove il vivere sta concettualmente per ‘esistere’, con un allargamento anche al reale non vivente biologicamente, ma vivente nell’essere.
Questa straordinaria parola sulla dignità di ciò che esiste dà la continuità effettiva ad una parola ‘vivente’ più che a una persona vivente, se è vero che questa universalità trova espressione prima nel racconto evangelico e attraversa i secoli fino alla modernità, per ritrovarla nella stessa esatta formulazione nelle dichiarazioni universali sui diritti – e quindi sulla giustizia - che da alcuni secoli ha informato il nostro vivere civile.

A questo punto posso non curarmi più della storicità non tanto di Gesù (ho già detto che la sua figura ha agganci storici a parer mio indiscutibili), ma posso non curarmi più del fatto che Gesù storicamente abbia pronunciato quelle parole. Perché sono le sue parole e non la sua figura ad essere ‘vivente’ al presente e tanto basta. Il pronunciante è secondario. Se Il Gesù della fede è il Gesù di queste parole di dignità di tutto il creato attribuite a Gesù, ecco che allora il Gesù della fede anche per me parla e dice. Al presente. Ma il Gesù della fede ‘è’ la sua parola che parla e dice e non la sua persona individuale.