di Isabella Adinolfi

Voglio specchiarti sempre in tutta la figura, 
mai cieco o troppo vecchio,
per sostenere la tua immagine vacillante e greve.
(R. M. Rilke, Libro d'ore)

Nel racconto biblico della creazione, ai versetti 26-28 del primo capitolo della Genesi, si legge: “E Dio disse: ‘Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza, e abbia potere sui pesci del mare e sui volatili del cielo, sugli animali domestici su tutte le fiere della terra e sopra tutti i rettili che strisciano sulla terra’. E Dio creò l’uomo a sua immagine. A immagine di Dio lo creò. Maschio e femmina li creò”. Questi pochi versetti nella tradizione ebraica e cristiana hanno conosciuto una vastissima fortuna. Come intendere infatti il testo biblico? In cosa si somigliano Dio e l’uomo? Si è o si diviene simili a Dio?

Le pagine che seguono si soffermano su una recente, singolare e potente interpretazione in termini dinamici del principio dell’imago Dei[1], attestata dalla vita e dall’opera di una giovane scrittrice ebrea olandese, vissuta nel periodo più difficile e cupo per il popolo ebraico, quello della persecuzione razziale e dei campi di sterminio, Esther Hillesum.

Etty, come tutti intorno a lei la chiamavano, aspirava a diventare una scrittrice: avrebbe voluto comporre racconti, poesie, fiabe, ma le vicende della guerra e la morte violenta ad Aushwitz le impedirono di realizzare il suo sogno. La giovane ebrea tuttavia ci ha lasciato un diario e delle lettere, in cui ha narrato in pagine intense il suo cammino di fede, ovvero il cammino da lei compiuto per dissotterrare e portare alla luce l’immagine di Dio che aveva scoperto in se stessa. Un percorso dapprima terapeutico, intrapreso con lo psicochirologo Julius Spier, ma poi anche e sempre più decisamente spirituale, di purificazione e familiarità con Dio. Un “cammino faticoso” come lei stessa si esprime la sera dell’11 gennaio 1942 in un passo molto noto del suo diario: “Ho dovuto percorrere un cammino faticoso per ritrovare quel gesto intimo verso Dio, la sera alla finestra, per poter dire: ti ringrazio Signore”[2].
Ebbene, per comprendere questo difficile cammino occorre innanzitutto considerare il milieu in cui la fede della giovane donna è maturata, nel quale prevaleva quell’ateismo razionalista, scientista o scettico che ha dominato la seconda metà del XIX secolo, il cui effetto consisteva nel far apparire ingenuo, infantile, sentimentale, tutto quanto aveva rapporto con lo spirito, la fede, Dio. Mercoledì 12 marzo 1941, pochi giorni dopo aver iniziato il diario, la Hillesum vi ricopia un pensiero di Freud, tratto da L’avvenire di un’illusione, che interpreta la religiosità come la puerile “reazione” di chi – non riuscendo a sostenere il sentimento della propria pochezza e impotenza di fronte all’universo – cerca soccorso in un essere superiore[3].

La giovane è dunque pienamente consapevole di muoversi in un tempo e in una società in cui è motivo d’imbarazzo parlare di Dio con le persone colte che s’incontrano o frequentano. Nondimeno, la sera dello stesso giorno in cui comincia ad annotare il diario, il 9 marzo 1941, Etty fa già menzione di “Dio” servendosi delle parole di un grande poeta olandese, allora morto da pochi anni, Albert Verwey: “‘Il mondo rotola melodiosamente dalla mano di Dio’: ho avuto in mente queste parole di Verwey per tutto il giorno. Anch’io vorrei rotolare melodiosamente dalla mano di Dio”[4]. Il nome di Dio fa dunque il proprio ingresso nelle sue annotazioni diaristiche sotto l’egida della poesia. Ciò non deve stupire: per Rainer Maria Rilke, che la giovane ha eletto a suo poeta, e per una certa cultura del tempo i poeti sono infatti i sacerdoti e i profeti del dio veniente.
Dopo tale menzione, le prime invocazioni che lei rivolge a Dio sono sostanzialmente richieste di soccorso, assistenza, vicinanza, nelle sue piccole e grandi lotte quotidiane. Il 25 marzo 1941, in un momento di “smarrimento” causato dall’improvvisa scomparsa per malattia del professore Van Wijk, suo “unico punto di riferimento” per gli studi di slavistica che coltiva con passione, la giovane ebrea si rivolge a Dio per chiederne spiegazione: “Mio Dio com’è potuto succedere?”[5]. In passi come questo il nome di Dio è invocato, più per abitudine che per fede, nei momenti di più forte tensione emotiva, di difficoltà, di abbattimento.

Tuttavia, non appena la giovane comincia a esplorare la propria interiorità e a lavorare alla formazione di se stessa, come le ha suggerito Julius Spier, lo psicoterapeuta cui si è rivolta per districare il proprio interiore groviglio e di cui ben presto s’innamora, anche la rappresentazione di Dio gradualmente muta. Si fa via via più interiore, personale, intima, come se stabilendo un rapporto più profondo con se stessa, si approfondisse anche il suo rapporto con Dio – o quantomeno con un qualcosa che non riesce a chiamare altrimenti.
Questo mutamento si comincia già a intravvedere in un’annotazione del 19 marzo 1941: “Tutta la mia debolezza, in effetti, deriva dal fatto che ogni volta, o almeno molto spesso, sono perseguitata da una grande domanda che in realtà esprime un vuoto: Ne vale davvero la pena? Vale la pena di lottare? Non bisognerebbe semplicemente prendere quello che la vita ha da offrire e lasciar perdere il resto? Dietro a questa domanda ce n’è forse una ancora più banale: chi ti sarà grato per questa lotta o […]: a chi importerà? A Dio, di certo: queste parole, che scaturiscono inattese dalla mia stilografica, mi danno d’un tratto un’umile forza. Forse queste parole […] si trasformeranno nella mia salvezza”[6].
Dio, che è qui invocato nella battaglia che conduce con e contro se stessa affinché prevalga la parte migliore di lei, non è già più una presenza meramente convenzionale. A questo Dio importa la lotta dell’uomo per l’ideale, per trasformare se stesso nella versione migliore di sé, sicché il solo pronunciare il suo nome le infonde un’“umile forza” per procedere nel cammino di costruzione della propria personalità.

Come si spiega questo cambiamento? Si sta facendo strada in lei, accompagnandosi, almeno nella fase iniziale, alla concezione tradizionale del Dio “tappabuchi”, cui rivolgersi nel momento del bisogno, la percezione di un Dio immanente, presente e operante in lei, che non l’abbandonerà mai più. Annota il 26 agosto 1941: “Dentro di me c’è una sorgente molto profonda. E in quella sorgente c’è Dio. A volte riesco a raggiungerla, più sovente essa è coperta da pietre e sabbia: allora Dio è sepolto. Allora bisogna dissotterrarlo di nuovo. M’immagino che certe persone preghino con gli occhi rivolti al cielo: esse cercano Dio fuori di sé. Ce ne sono altre che chinano il capo nascondendolo fra le mani, credo che cerchino Dio dentro di sé”[7].
La scoperta di un vasto spazio interiore in cui, malgrado le minacce esterne, la giovane ritrova pace, riposo, armonia, in cui entra in contatto con la parte più profonda di se stessa, dal cui fondo emerge una realtà che lei chiama “Dio”, rappresenta il punto di svolta della sua conversione. A questa scoperta la conducono Rilke, che in alcuni versi parla di uno “spazio interiore del mondo”, e più tardi l’Agostino delle Confessioni per il quale Dio è intimior intimo meo[8]. Ma poi anche e soprattutto Julius Spier – l’ostetrico della sua anima – il quale per la sua formazione junghiana riteneva che dio fosse presente nell’intimo di ogni uomo. La stessa Hillesum racconta nel diario questo episodio: a un paziente che gli aveva detto: “Qualche volta ho la sensazione di avere Dio dentro di me, […] per esempio quando ascolto la Matthäus-Passion”, Spier aveva replicato che “in quei momenti lui era in contatto diretto con le forze creative e cosmiche che operano in ogni persona” e che “questo principio creativo era in definitiva una parte di Dio, si doveva avere solo il coraggio di dirlo”[9]
Certo, la concezione di Dio prospettata da Jung o da Spier non è quella di Agostino. Se per lo psicanalista svizzero e il suo originale interprete Dio si risolve in pura immanenza, per Agostino il Dio trascendente si rivela nell’interiorità, dimora nell’uomo, creato a sua immagine, ma non è identificabile con una forza cosmica presente e operante come nel tutto, così anche in ogni singolo essere. Nel diario la Hillesum sembra però non attribuire importanza a queste distinzioni o comunque non tematizzarle. Ciò che le importa è l’esperienza del Dio interiore, il contatto reale con il Dio vivente dentro di sé, fonte d’amore. “Tu vivi nel mio profondo, Dio”[10], scrive sempre più convinta. Come Spier – di cui sintetizza nel diario l’insegnamento – anche lei pensa che “l’incontro interiore con una forza estranea” rappresenti un’esperienza impensabile e ineffabile e che essa sia “l’unica realtà che non si possa annullare con le discussioni”, laddove i pensieri, i concetti e le immagini “possono venire insudiciate e distrutte”.

Ed è alla luce di questa esperienza che alcune espressioni bibliche acquistano una più profonda pregnanza. È ancora Spier a consigliarle di cominciare ogni giorno con la lettura della Bibbia e Etty  che ne accoglie il suggerimento scrive il 28 novembre 1941: “Ultimamente traggo alcune citazioni dalla Bibbia e le rileggo alla luce di un significato che per me è chiaro, nuovo, ricco e pieno di esperienza. ‘Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza’– ‘Ama il prossimo tuo come te stesso’, ecc”[11]. Ed è sempre Spier a suggerirle che: “L’espressione ‘Parola di Dio’’” non riguarda soltanto la rivelazione contenuta nel testo sacro della tradizione giudaico cristiana, ma che con essa “si intende in senso lato il sapere originario, l’ispirazione e il lavoro dello Spirito Santo che si manifesta nell’uomo”[12].
Alla luce di questo insegnamento, la Hillesum legge sia l’Antico che il Nuovo Testamento, il Talmud, il Corano e i testi sacri delle religioni orientali. Conosce quindi i molti nomi con cui le diverse tradizioni religiose hanno chiamato e pregato Dio, ma questi nomi le appaiono, come a Rilke, di cui il 19 dicembre 1941 ricopia nel diario alcuni versi su Dio tratti dal Libro d’ore, “solo frammenti” dell’antico nome (des alten Namens)[13]. O ancora, come lei scrive più tardi, il 22 giugno 1942, “solo qualcosa che somiglia”, “un avvicinamento” alla nostra esperienza interiore: “Mi trovo a iniziare, ma è un inizio che c’è, lo so per certo. Significa aver richiamato su di sé tutte le forze possibili e vivere la propria vita con Dio e in Dio e avere Dio in sé stessi. (A volte trovo la parola Dio davvero primitiva: è solo qualcosa che le somiglia, dopotutto, un avvicinamento alla nostra più grande e ininterrotta avventura interiore; credo di non aver neppure bisogno della parola Dio, che a volte mi sembra un suono primitivo, primordiale. Una struttura di rinforzo.) E se la sera, a volte, sento il bisogno di parlare a Dio e dico molto infantilmente: Dio, con me non può andare avanti così e talvolta le mie preghiere possono essere molto incerte e imploranti –, allora è proprio come se mi rivolgessi a qualcosa dentro di me, o come se cercassi di padroneggiare una parte di me stessa”[14].
Ora, definendo i nomi di Dio “frammenti” e “metafore” la Hillesum vuol indicare anche un limite linguistico, l’ineffabilità dell’esperienza di Dio, l’impossibilità di tradurla pienamente in parole e in concetti. Come per tutti i mistici anche per lei dunque il rapporto interiore con il Dio interiore va custodito nel silenzio. Leggiamo in un passo del diario datato 5 luglio 1942: “Ormai da un anno sto lavorando al silenzioso spazio dentro di me, tanto che adesso si è esteso fino a diventare una sala, tangibile nella sua presenza”[15].

Dunque, per la Hillesum scendendo dentro noi stessi, nell’interiorità, mano a mano che “riusciamo ad aprirci un varco fino alle sorgenti originarie che abbiamo dentro di noi”[16], sempre più diveniamo somiglianti a quell’immagine di Dio presente in ciascuno che, con quotidiano lavoro, dobbiamo disseppellire da noi stessi. Ogni essere umano è dunque un riflesso del divino: Dio è radice, origine, fulcro creatore di tutto il genere umano, senza distinzione di razza e sesso. Con maggiore chiarezza scrive il 5 luglio 1942: “Dalla Bibbia scaturiscono tutte le correnti che in questo momento scorrono in ogni spirito e in ogni cuore umano, correnti che si sono cristallizzate in – ismi e differenti confessioni, dottrine e conflitti”. Se ciò è potuto accadere, è perché Dio è una “gentile, e infinitamente varia, sorgente”[17].
Più gli uomini lavorano in se stessi per liberare la sorgente originaria da sassi e sabbia e più si sentono vicini l’uno all’altro, viceversa più si discostano dalla comune sorgente originaria, più si allontanano gli uni dagli altri, chiudendosi in un individualismo portatore di opposizioni e conflitti reciproci.
Anche in questi uomini, nondimeno, per quanto sfigurata, l’imago Dei non è perduta, e quindi Etty spera sempre, fino alla fine, che ricacciandoli nei loro territori interiori, con un lavoro di scavo, essa possa riemergere. “Amo così tanto gli altri perché amo in ognuno un pezzetto di Te, mio Dio”. “Ti cerco in tutti gli uomini e spesso trovo in loro qualcosa di Te. E cerco di disseppellirTi dal loro cuore, mio Dio”[18].

È l’apostolo Paolo con il suo Inno alla carità ad averla persuasa per sempre che Dio è Amore e che chi gli somiglia è colui che ama: “ho preso in mano la mia Bibbia e l’ho aperta alla Prima lettera ai Corinzi, 13, per l’ennesima volta. Sì. ‘Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi amore, sarei un rame risonante o uno squillante cembalo. […] E quando ho letto quelle parole [...] hanno operato su di me come una verga da rabdomante che sferzava il fondo duro del mio cuore, facendone improvvisamente scaturire sorgenti nascoste. D’un tratto mi sono ritrovata inginocchiata accanto al tavolino bianco e l’amore sprigionato scorreva di nuovo dentro di me, libero da desiderio, invidia, odiosità”[19].
Solo una volta la sua fede vacilla. La lettera inviata il 24 agosto 1943 a Han Wegerif e altri dal campo di transito di Westerbork, dove lavora come assistente sociale, ne è inquietante testimonianza. Ripensando alle scorte armate in uniforme verde che durante la notte avevano caricato sul treno diretto ad Auschwitz malati gravi, vecchi moribondi, madri prossime al parto, bambini appena nati, rievocando le loro “facce”, in cui si cercherebbe invano un residuo di umanità – facce, appunto, non volti, perché in quell’ora non serbano in sé più alcuna traccia dell’impronta divina, non sono più imago Dei, e quindi confondono e spaventano –, annota infatti angosciata: “Mi sono trovata nei guai con il tema fondamentale della mia vita: ‘E Dio creò l’uomo a sua immagine’. Questa parola ha vissuto con me una mattina difficile”[20].
Ma poi anche questo momento di smarrimento passa e rinasce la speranza nel Dio d’amore e nell’uomo creato a sua immagine. Certo, l’abisso della storia l’attende dietro l’angolo, e di lì a poco sparirà nel buco nero di Auschwitz, ma la sua non è una speranza ingenua, non è un’illusione consolatoria. Conosce infatti sia l’amore sia la violenza attivi nella storia, e per questo si rivela profetica, quando, divenuta imago Dei, intuisce e attesta con chiarezza che anche “dopo la guerra, due correnti attraverseranno il mondo: una corrente di umanesimo e un’altra di odio”[21], e che lei, la sua vita, la sua opera, modellate dal Dio d’amore, sono e sempre saranno una potente testimonianza contro quell’odio.

 

Note

[1] Riprendo l’interpretazione dinamica dell’imago Dei da P. C. Bori, che in Dallimmagine alla somiglianza osserva: “[L]a coppia ‘immagine e somiglianza’ viene letta dall’antica esegesi, soprattutto orientale, in termini dinamici, come dallimmagine alla somiglianza. Mi piace molto questa prospettiva perché, appunto, dà senso al nostro vivere, concependolo come progetto e crescita, per cui da statua immobile l’umano si fa persona viva, che cresce indefinitamente verso la pienezza. E inoltre mi piace perché il modello di un percorso spirituale dall’etica alla contemplazione trova corrispondenza in molte culture” (P. C. Bori, Dallimmagine alla somiglianza, Genova-Milano 2012, p. 25).
[2] E. Hillesum, Diario, trad. it. di C. Passanti e T. Montone, Milano, Adelphi, 2012, p. 338.
[3] Ivi, pp. 44-45.
[4] Ivi, p. 35.
[5] Ivi, p. 94.
[6] Ivi, pp. 74-75. Su questi stessi snodi della conversione della giovane scrittrice ebrea ha richiamato felicemente l’attenzione la dott.ssa R. Bellese nella sua tesi di laurea: Una missione storica per tutti nella proposta di Etty Hillesum.
[7] E. Hillesum, Diario, cit., p. 153.
[8] Confessiones, III, VI, 11.
[9]  E. Hillesum, Diario, cit., p. 279.
[10] Ivi, p. 340.
[11] Ivi, p. 243.
[12] Ivi, p. 69 (19 marzo 1941).
[13] Ivi, p. 292.
[14] Ivi, p. 645.
[15] Ivi, p. 692.
[16] Ivi, p. 777 (28 settembre 1942).
[17] Ivi, p. 691 (5 luglio 1942).
[18] Ivi, p. 750.
[19] Ivi, p. 382.
[20] E. Hillesum, Lettere 1941-1943, trad. it. di C. Passanti, T. Montone e A. Vigliani, cura editoriale di R. Cazzola e di C. Di Palermo, Milano, Adelphi, 2013, p. 135.
[21] E. Hillesum, Diario, cit., p.765.

Esodo 3/2018, "Adam dove sei?" Ripensare l'umano, pp. 32-37