di  Don Paolo Cugini* 

Giovedì 14 marzo. Oggi compio 57 anni. Che bel compleanno mi ha riservato il Signore! Sono immerso nella foresta amazzonica, trascorrendo il tempo sul fiume, incontrando una nuova realtà e tante persone. Mi sono alzato presto, come al solito del resto, per ringraziare Dio per il dono della vita.

Del ministero a volte faccio fatica a ringraziare Dio. Lo ringrazio perché, attraverso il ministero, mi ha fatto incontrare tante comunità, tante persone e mi ha mostrato tanti cammini diversi in contesti diversi; mi ha dato la possibilità di mettermi al fianco in cammino con tante persone povere, diseredate, emarginate e sbeffeggiate dalla società; mi ha inoltre dato la possibilità di avere molto tempo a disposizione per pregare, meditare, leggere e scrivere. Faccio fatica a ringraziarlo quando penso che mi ha tolto la possibilità di essere padre, di amare ed essere amato da una donna, di vivere cioè la mia umanità in un cammino normale. Sono aspetti ai quali, quando ero giovane e ho deciso di riprendere il cammino del ministero presbiterale (avevo già 29 anni e quindi non è stata una scelta presa alla leggera: chi mi conosce, chi conosce i miei vent’anni, lo sa bene), non avevo dato un grande peso: pensavo che il Signore, la Chiesa, i poveri, le comunità mi sarebbero bastati. In realtà, per come sono andate le cose, non è stato proprio così. Ho mangiato così tanta solitudine, che ne ho sentito la mancanza. A causa del mio temperamento (non ho bisogno di spiegare e approfondire i dettagli) ho vissuto in mezzo a situazioni di conflitto e persecuzione così forti, che l’amore del Signore, in diverse circostanze, non mi è bastato: forse quello di una donna o dei figli sarebbero stati meglio, un amore più umano, più vero e autentico. Forse la stessa missione, se fossi stato un presbitero sposato con moglie e figli, sarebbe stata diversa, più vera. Senza dubbio, sarei stato meno libero nei movimenti e nelle prese di posizioni, ma probabilmente più comprensibile, più in sintonia con le persone incontrate, con maggior possibilità di condividere le fatiche e i problemi delle persone. Lo so che con i se e i ma non si costruisce la storia, ma credo che valga la pena ogni tanto fermarsi e riflettere sul proprio vissuto e condividerlo, per cercare di capire se si poteva fare meglio, per cercare di cogliere meglio la volontà e l’amore del Signore che cammina con noi. A volte mi chiedo: se Gesù avesse vissuto sino ad 80 anni che cosa avrebbe fatto? Quando sento i laici cattolici comparare il celibato dei preti con la loro scelta del matrimonio, vado su tutte le furie (del resto mi ci vuole poco per scaldarmi). Quando comincio a proporre queste riflessioni a voce alta, cercando un confronto non per parlare male del presbiterato o del celibato, ma per capire se sia possibile un cammino che metta in condizione una persona di vivere in modo più umano il ministero a servizio di una comunità, i cattolici ferventi si rinchiudono subito a riccio, tirando fuori dal cappello la gamma delle frasi belle e fatte che non permettono il dialogo, il confronto, la crescita. Per vivere meglio il mio ministero a servizio della comunità, ho bisogno di confrontarmi. Quando ero in Bahia avevo trovato alcune persone – due donne soprattutto - con cui mi confrontavo e mi aprivo anche sui temi della sessualità. Nei cinque anni trascorsi in Italia non ci sono riuscito. Non sto dicendo questo per dire che là è meglio di qua: condivido solamente dei cammini percorsi. È difficilissimo parlare di sessualità, di affettività, del bisogno di affetto che ho percepito in alcune occasioni della mia vita ministeriale, in un contesto in cui il presbitero è considerato una figura angelica, asessuata e, in un contesto in cui parlare di sesso sembra parlare di cose sporche, da sentirsi in colpa. Anche il presbitero ha una sessualità e vive di affettività. Non mi venite a dire adesso, che è proprio per questo motivo che i presbiteri dovrebbero vivere in comunità. Io ci vivrei volentieri se in queste comunità ci fossero anche delle donne: passare una vita in una comunità esclusivamente maschile, non ci penso nemmeno! Tenetevela voi. Preferisco, allora, vivere da solo. Come poi, ho fatto sino ad ora. Ho vissuto gli anni in cui sono tornato in seminario il rapporto con il Signore come un rapporto d’amore. Vivevo di Lui e desideravo stare solo con Lui. Mi immergevo per ore e giorni nella sua Parola. Passavo ore e ore davanti al Santissimo Sacramento. Quante giornate ho trascorso in luoghi deserti, case abbandonate per stare solo con il Signore! E poi vivevo questo amore nel servizio ai poveri, alle persone bisognose. Sentivo in modo impressionante la Sua presenza al punto che un giorno gli chiesi di mollare un po' la presa: mi sentivo soffocato da tanto amore e da tanta presenza. Nonostante tutto questo amore che mi ha condotto verso il ministero, ho sempre avvertito dentro di me un senso di incompletezza: ci mancava qualcosa. Ho vissuto i primi dieci anni di ministero in apnea: immerso nella preghiera e nel servizio, soprattutto ai poveri. Mi sono dato in modo inusitato, sorretto anche da un temperamento forte che spesso mi portava ad esagerare nelle scelte, nel modo di donarmi, nel modo anche di esigere dagli altri. È proprio pensando a come sono andate le cose, che penso ad un modo diverso di vivere il ministero a servizio di una comunità, che è il modo comune che la Chiesa richiede ai presbiteri. Se avessi vissuto questo amore all’interno di una famiglia, forse avrei trasmesso alla comunità delle relazioni più comprensive e meno violente e radicali. Non lo so, sono solo riflessioni nel giorno del mio 57 compleanno e che metto davanti al Signore e condivido con voi. Amen.

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L'articolo  è apparso   su  LA VOCE DELL'OIVD , news letter dell'Osservatorio interreligioso  sulle violenze contro le donne N. 2  aprile/ottobre 2021