di Andrea T. Torre
Dalla fine del 2013 l’Italia è stata interessata da un afflusso di persone che hanno attraversato il canale di Sicilia dalla Libia verso le proprie coste. Non è scopo di questo articolo analizzare complessivamente queste dinamiche1, tuttavia, per inserire il tema dell’accoglienza per come si è sviluppata dal 2014 a oggi, sono necessarie almeno un paio di sottolineature.
La prima, quella più generale, vuole contestualizzare il fenomeno degli arrivi via mare come fenomeno congiunturale; non ci sono, come purtroppo è stato comunicato per incompetenza o per mirati obiettivi politici (che hanno portato peraltro ottimi risultati a coloro che hanno usato queste narrazioni) indicatori che confermino l’argomento dell’invasione o del fenomeno “epocale”2.
Non ci sono migrazioni di massa fuori controllo dall’Africa verso l’Europa; la situazione libica post Gheddafi ha generato una convergenza, per 2/3 anni, di flussi migratori dall’Africa subsahariana verso Nord, prevalentemente verso un approdo, quello libico appunto, con la conseguente direzione successiva verso il paese più prossimo, cioè l’Italia. Negli stessi anni, a completamento del quadro generale, ricordiamo che il numero complessivo di migranti entrati in Italia è stato minore rispetto agli anni precedenti, poiché si sono praticamente azzerate le possibilità di ingresso legale per motivi di lavoro, che sarebbe l’asse portante che la legislazione italiana prevede. È sempre utile ricordare che la gran parte di migranti entrati in Italia lo hanno fatto nel decennio 2001-2011; in questo arco temporale la popolazione straniera è passata da 1.632.630 a 4.790.405 di persone, cioè + 193%, mentre nel periodo degli “sbarchi” (2011/2017) è cresciuta soltanto del 5,4% (passando da 4.790.405 a 5.047.028).
La seconda considerazione riguarda la “tipologia di ingressi”. Mentre chi entrava nella fase precedente lo faceva o per lavoro (avendone già uno, motivo per cui poteva entrare o, di fatto, regolarizzarsi essendo già presente) o per ricongiungimento familiare, nella fase successiva la condizione di richiedente protezione internazionale rendeva necessaria la presa in carico per il periodo di attesa di definizione di queste domande. Da questo punto di vista, indubbiamente, l’Italia è stata costretta ad ampliare un sistema di accoglienza, che è cresciuto rapidamente in un paio di anni; se, infatti, nel 2013 c’erano circa 22.000 richiedenti asilo, nel 2014 ve ne erano oltre 170.000. Da circa un quindicennio era attivo un sistema di accoglienza (prima PNA poi SPRAR), che era connesso con le amministrazioni locali. La scelta “emergenziale”, però, è stata quella di creare un sistema “parallelo” e quantitativamente ben più rilevante, che è stato coordinato dai Prefetti, il sistema dei così detti CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria). Nonostante le Prefetture rappresentino l’articolazione della Stato per antonomasia, per almeno un paio di anni, le modalità con cui si sono attivate queste strutture di accoglienza nei territori sono state assai differenziate, dando vita spesso a realtà che già ab origine avevano in sé disorganizzazione, improvvisazione e, in molti casi, malversazione. Questa incapacità di gestire una situazione che obiettivamente in alcuni frangenti è stata difficile ha segnato molto l’immaginario collettivo, alimentando e dando corpo a quel sentimento di paura e astio che, anche grazie ai media, ha fatto presa sull’opinione pubblica. Possiamo dire, quindi, che dal punto di vista dell’immaginario collettivo questa fase è stata gestita in modo deficitario e ha lasciato traccia anche sull’atteggiamento con cui i cittadini hanno seguito questa vicenda. Le realtà come quella di Cona (centro di accoglienza in provincia di Venezia, creato in prossimità di una base militare in aperta campagna, e dove sono state inserite un migliaio di persone) hanno generato nell’opinione pubblica quella “paura dell’eco politica dell’anomia urbana3" che ha toccato anche chi (soprattutto chi), nello stesso momento, non vedeva l’ombra di un richiedente asilo.
In questo scenario complesso e strumentalizzato, però, le realtà del terzo settore che già da tempo operavano nel contesto migratorio, e molte amministrazioni locali, hanno provato a farsi carico di questa situazione e a dare vita in diversi contesti locali, spesso i più inaspettati, a forme di accoglienza che non solo si sono rivelate come “accettate” dai cittadini, ma che hanno portato valore aggiunto alle comunità locali. In questo senso spesso questo risultato lo si è ottenuto in contesti minori, nell’Italia rurale o montana, dove la presenza di migranti - giovani in contesti nei quali i giovani non erano più presenti - ha riattivato energie e socialità. Il caso più celebre - e recentemente anche controverso - è certamente quello di Riace in Calabria ma, come detto, sono numerose le esperienze, magari meno conosciute dai media, che hanno portato buoni risultati. In questo articolo vorrei evidenziare un progetto che si è occupato proprio di valorizzare queste esperienze locali, diventate materia per un percorso formativo denominato “Migliora”4 , in corso di realizzazione tra Piemonte e Liguria.
"Migliora" è nato proprio dal percorso di approfondimento delle buone pratiche di accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati, e di identificazione dei bisogni delle aree extraurbane presentato in occasione del “Il Mondo in paese. Dall’accoglienza all’inclusione dei rifugiati nei comuni rurali del Piemonte” (Torino, 11 maggio 2017). Dal confronto con i territori avvenuto durante quel percorso, è emersa la necessità di lavorare sull’integrazione e sui percorsi post-accoglienza, attraverso azioni di capacity building rivolte ai diversi soggetti attivi in questo campo, con particolare attenzione alle aree extraurbane. È emersa l’esigenza di mettere a sistema queste esperienze locali attraverso il confronto diretto tra i soggetti coinvolti, l’analisi degli interventi e la loro modellizzazione.
Con questi obiettivi, ampliando il gruppo di lavoro e confrontandosi con le istituzioni e i soggetti del territorio, è stato sviluppato un nuovo progetto. "Migliora" è un progetto della Compagnia di San Paolo, realizzato dall’istituto di ricerca FIERI (Torino), la Cooperativa Sociale Labins (Laboratorio di Innovazione Sociale), l’Associazione Dislivelli e il Centro Studi MEDI-Migrazioni nel Mediterraneo di Genova, in collaborazione con l’UNHCR, Agenzia ONU per i Rifugiati, Regione Piemonte, Città Metropolitana di Torino, ANCI Liguria, UNCEM Piemonte. Si è quindi cercato di estrarre e sistematizzare conoscenze cumulate da chi progetta e gestisce gli interventi.
Sulla base di questa metodologia adottata mi sembra interessante evidenziare una di queste esperienze di buona accoglienza, non solo ben integrata ma che ha consentito di dare una prospettiva di inserimento post-accoglienza alle persone accolte e, nello stesso tempo, ha valorizzato il territorio all’interno del quale si sono sviluppate. Queste buone pratiche raccolte e il lavoro svolto durante i seminari saranno interamente disponibili al termine del percorso sul sito: www.formazione-migliora.it
L’esperienza che vorrei brevemente raccontare riguarda il territorio delle valli di Lanzo (Ceres e Pessinetto). Nel mese di aprile del 2014 un gruppo di 18 richiedenti asilo (su una popolazione di 1000 abitanti, di cui solamente 600 residenti reali) provenienti dall’Africa subsahariana, è stato trasferito a Ceres presso un’ex struttura alberghiera in centro paese, gestita dalla Cooperativa Sociale Babel di Torino. Alcuni residenti iniziano a socializzare e a svolgere attività di sostegno, dall’insegnamento della lingua italiana al sostegno di bisogni primari. Successivamente, nell’ottobre 2014, a Pessinetto, arrivano altri 42 richiedenti asilo, provenienti in gran parte da Senegal, Gambia, Costa d’Avorio e Ghana. Nel giro di poco tempo il gruppo dei volontari si espande anche ad altri paesi delle Valli di Lanzo. Questi condividono esperienze e si coordinano con le Cooperative che hanno in carico le persone: cercano aziende disposte ad attivare tirocini di lavoro per i giovani in quella zona e, soprattutto, creano occasioni di incontro con la popolazione, per tentare di abbattere la diffidenza. Le attività si sviluppano al punto che si decide di fondare un’Associazione (Associazione Morus Onlus, che oggi conta 30 soci, italiani e stranieri) per dare maggiore forza e impulso al lavoro svolto.
L’attività divenuta più “celebre” parte casualmente con un nucleo di ragazzi che aveva iniziato a trovarsi di fronte a “Strass e Barat”, un negozio equo-solidale di Pessinetto, in cui invece del denaro si fa scambio e solidarietà. I gestori del negozio cantavano in un coro di canzoni piemontesi e hanno quindi coinvolto alcuni ragazzi stranieri, che hanno imparato le canzoni come strumento per familiarizzare con l’italiano. Questa collaborazione su base volontaria si è poi consolidata e strutturata fino al debutto ufficiale del Coro Moro, composto da 8 ragazzi tra quelli ospitati nelle strutture. Da quel momento ha preso avvio l’attività permanente del Coro con l’organizzazione di prove e un crescente seguito: il Coro è formato sempre da 8-10 persone che compongono il nucleo storico, ma si è ampliato il numero dei ragazzi presenti che vi gravitano intorno. Coro Moro si è esibito nel concerto di chiusura di Expò Milano nel 2015 e continua a tenere concerti e a incidere album consentendo ai propri membri di vivere di questa attività.
Nello stesso contesto si sono sviluppate altre attività, come quella della sartoria “Moro Style”. Moro Style nasce per creare vestiti secondo la moda africana da esporre e vendere durante eventi estivi nelle valli. Per la sartoria sono state acquistate macchine da cucire professionali e alcuni tessuti africani.
In termini di integrazione nel contesto locale, risultati positivi sono stati raggiunti anche con la squadra di calcio. Il Moro Team è una squadra di calcio composta esclusivamente da richiedenti asilo, che partecipa ai campionati dilettanteschi della zona, rappresentando quindi un'occasione di tempo libero. Morus Onlus ha seguito anche l’attivazione di inserimenti lavorativi, tutti in imprese locali. Per il futuro, Morus Onlus mira ad aumentare la professionalità dei ragazzi, che fanno parte del Coro (attraverso lezioni di canto), mentre su un periodo più lungo ipotizza di poter “esportare” e “replicare” il progetto (ci potrebbe essere una buona combinazione con altri dialetti “regionali”).
L’esperienza delle Valle di Lanzo ha acquisito una certa notorietà mediatica proprio in virtù dell’esperienza particolare del Coro Moro ma, come evidenziato, non solo, dal Progetto Migliora, sono numerose le esperienze virtuose di inserimento di richiedenti asilo nei territori. Se dovessimo enumerare quali possono essere stati i fattori che hanno reso positive queste esperienze potremmo elencarne alcuni: 1) esperienze coordinate dagli enti locali (SPRAR) o che gli enti locali sono riusciti a governare dopo l’insediamento; 2) presenza di realtà di terzo settore sperimentate, propositive e capaci di rapportarsi con il territorio; 3) capacità delle comunità locali di cogliere l’arrivo di migranti come un possibile valore. Questo è stato soprattutto nei piccoli contesti rurali in cui è stata colta l’opportunità di avere nuovamente dei giovani (non dei migranti) che in controtendenza con le dinamiche naturali potevano riportare vitalità a territori in stato di progressivo abbandono. Su questo aspetto è opportuno un piccolo approfondimento.
A differenza delle migrazioni per lavoro, che fanno riferimento a una dinamica ormai quarantennale, i flussi di richiedenti asilo sono molto più recenti ed è quindi difficile tracciare un bilancio sull’impatto strutturale che potranno avere. La presenza di strutture in piccoli centri fa riferimento a un fenomeno indotto e non richiesto (come può fare il mercato del lavoro). In altri termini, mentre i Sikh insediati nel modenese e reggiano in relazione al settore zootecnico possono essere considerati frutto di una dinamica consolidata, lo stesso ancora non si può dire di gruppi di giovani insediati nei borghi alpini o appenninici. Su questo tema rimando a studi specifici e di grande interesse5.
Altro tema interessante è legato alle competenze dei richiedenti asilo, che sono davvero asimmetriche. Ci sono persone con un capitale culturale/educativo molto basso, ed altri invece con background universitari. Anche questo rende difficile la generalizzazione rispetto alle attitudini lavorative. Non vi è dubbio, tuttavia, che le esperienze dell’accoglienza nelle aree interne evidenzi la propensione e la disponibilità a settori lavorativi manuali (agricoltura, pastorizia, artigianato), che sono sempre meno appetiti dai giovani autoctoni. Tornando ai fattori che hanno favorito l’inserimento nelle aree rurali, ve ne è un ultimo, ma di non minore importanza: l’impegno individuale che, soprattutto nei piccoli centri, riesce più rapidamente che nelle grandi aree urbane, a trasformare il migrante, il richiedente asilo, in quello che è: una persona, con la sua storia, le sue aspirazioni e le sue possibilità. Riuscire a contrastare il pericolo dell’”anomia urbana” è decisivo e richiede l’impegno personale di tutte le persone di buona volontà.
Note
1) Su questo tema vedi, Il diritto d’asilo. Accogliere, proteggere, promuovere, integrare, Tau Editrice 2018.
2) Su questo vedi World Migration Report, OIM, 2018.
3) Pascal Perrineau (1988).
4) https://www.formazione-migliora.it/
5) Andrea Membretti, Ingrid Kofler, Pier Paolo Viazzo (a cura di), Per forza o per scelta. L’immigrazione straniera nelle Alpi e negli Appennini, Aracne, Roma, 2017