di Piero Stefani

Quale era l’attesa messianica del popolo ebraico, in che cosa consisteva la loro speranza? Era nella liberazione dal giogo straniero o in qualcosa d’altro? E oggi?

La domanda ha un limite oggettivo legato alla presenza di troppi singolari. Il popolo ebraico nel I secolo e.v. era una realtà molto articolata; si pensi alla polarità diaspora-terra d'Israele, quest'ultima, a sua volta, sensibilmente differenziata tra Giudea e Galilea (senza contare il caso a sé della Samaria).

Molteplici e non di rado contrastanti erano le idee che animavano i vari gruppi. Tuttavia è vero che proprio questa situazione frammentata si rivelò un alimento per una speranza messianica volta a una reintegrazione della totalità d'Israele simbolicamente rappresentata dal riferimento alle dodici tribù (dieci delle quali disperse da secoli); tema, quest'ultimo, tutt'altro che estraneo al Nuovo Testamento (cfr. per es. Mt 19,28). Vi erano però orientamenti molto diversificati in relazione sia all'entità da considerarsi come «vero Israele», sia alle modalità con cui si sarebbe pervenuti alla meta.

Un discorso analogo va condotto rispetto alla convinzione stando alla quale l'età messianica muterà radicalmente i rapporti tra i figli d'Israele e i gentili. Se il tema è accomunante, le risposte a esso  sono diversissime o addirittura opposte (si va dallo sterminio o sottomissione dei gentili fino alla loro conversione e integrazione). Rispetto all'opposizione al conquistatore romano vi furono varie opzioni: 1. la lotta armata (in genere associata al termine «zeloti» che andrebbe però meglio precisato); 2. la lotta armata in cui Dio stesso, direttamente o per procura, sarebbe stato parte in causa; 3. la scelta di affidarsi alla sola preghiera nella speranza che Dio liberasse il suo popolo (cfr. per es. la parte finale del Testamento di Mosè). Vi erano pure coloro che si accontentarono di essere garantiti nella loro libertà di culto incentrato sul tempio.
Le speranze principali erano: 1. Il ristabilimento delle dodici tribù; 2. la sottomissione o la conversione dei gentili (tema per es. già ampiamente presente  nella parte finale dei libro di Isaia); 3. un glorioso nuovo tempio purificato e rinnovato; 4. la santità del popolo in riferimento sia al culto sia al comportamento etico.

L'attesa di un Messia discendente di Davide  era meno dominante di quanto di solito si creda. Nella comunità di Qumran, per esempio, si attendeva soprattutto un messia sacerdotale anche se si conosceva pure la presenza di una figura messianica laica. In ogni caso va tenuto presente che il problema, tutt'altro che ignoto, della salvezza individuale si collocava in un orizzonte diverso da quello messianico (sull'insieme di questi temi cfr. E. P. Sanders, Il giudaismo. Fede e prassi (63 a.C. - 66 d.C), Morcelliana, Brescia 1999,pp. 387-419).

E oggi? Non mancano correnti messianiche; per limitarsi a due esempi, peraltro assai diversi tra loro, da un lato ci sono i Lubavitch Chabad  che mirano con il loro comportamento ad affrettare la venuta dei “giorni del Messia”,  dall'altro vi sono gruppi cosiddetti fondamentalisti che interpretano in maniera messianica la Guerra dei sei giorni (1967) che ha riconsegnato al popolo ebraico l'interezza della terra d'Israele. Si tratta comunque di componenti minoritarie. In relazione alla massima parte degli ebrei sembra di poter affermare quanto segue: a) l'attesa messianica è consegnata ormai per la massima parte a formule liturgiche (come avviene in ambito cristiano per la venuta del Signore alla fine dei tempi); b) l'età messianica opera ancora in senso critico, vale a dire si tratta di un'idea volta a mostrare che la condizione del mondo è irrimediabilmente pre-messianica; da nessuna parte vi è, infatti, traccia dello shalom messianico.
Un ironico detto ebraico, garbatamente polemico nei confronti del cristianesimo, afferma: il Messia non è ancora venuto, perciò si può ancora sperare.