di Paola Lazzarini

Non è facile essere cattolici ultimamente, forse non lo è mai stato, ma per un lungo periodo ho pensato che la difficoltà maggiore fosse quella di aderire con la vita ai valori dell’annuncio di Gesù Cristo.

Quella difficoltà resta, nel vivo di qualunque coscienza appena un po’ consapevole, ma nuovi ostacoli si parano davanti a chi cerca di vivere in comunione con la chiesa di Roma e questa volta non si trovano dalla parte dei credenti.
Siamo nel pieno della seconda fase del Sinodo sulla sinodalità, l’enorme macchina organizzativa voluta da Papa Francesco dopo una serie di incontri tra vescovi incentrati su argomenti specifici svoltisi negli anni scorsi e che avevano acceso tante speranze. In molte e molti abbiamo deciso di investire tempo ed energie in questo processo, scoprendo via via che quello che alcuni di noi consideravano un percorso di condivisione in grado di portare a decisioni cruciali per la vita della chiesa (matrimoni omosessuali, accesso delle donne a tutti i gradi dell’ordinazione, piena e aperta lotta a qualunque tipo di abuso solo per citarne alcune) in realtà era ed è solo un gigantesco tentativo di animare o rianimare comunità stanche e poco creative, ma senza vera volontà di cambiamento.
Si sono fatte decine di migliaia riunioni, in tutto il mondo, nel corso dell’anno scorso e a febbraio, a Praga, si sono ritrovati i 200 delegati europei in presenza e altri 270 online per la tappa “continentale”. La domanda che mi sono fatta, da attivista femminista cattolica, è stata: mi importa a sufficienza di quello che si è detto in quelle stanze da dedicare il mio tempo a leggere e ascoltare le relazioni? La risposta – lo ammetto – è stata no.
Questa profonda stanchezza che avverto, e che arriva perfino al fastidio, riguarda ciò che la chiesa istituzionale promuove, afferma, fa, quella chiesa istituzionale che la mistica medievale Margherita Porete chiamava la “chiesa piccola” in opposizione a quella “Grande” costituita da tutte le anime che amano Dio, in un bellissimo rovesciamento di prospettiva.
Le cause di questa perdita di motivazione rispetto alla promozione del cambiamento nella chiesa sono tante, la prima e più grande è dovuta alla constatazione che non c’è la volontà di attuare una reale e concreta lotta agli abusi. È chiaro che non bastano le intenzioni di preghiera del Papa e neppure i centri di ascolto diocesani, occorre una messa in discussione strutturale dell’impianto gerarchico basato sull’ordinazione, perché è evidente che il terreno fecondo di qualunque abuso, da quello di potere a quello fisico, si trova nella sacralizzazione della figura del prete, che lo eleva su tutto e tutti dandogli modo di esercitare un dominio sulla coscienza immenso e assolutamente unico. Anche il recente caso del gesuita sloveno Marko Rupnik, responsabile di aver abusato spiritualmente e sessualmente per anni di almeno una decina di donne consacrate, svela la pervasività del problema. Inutile dire che questo approccio radicale – nel senso che va alla radice – non è minimamente contemplato.

La stanchezza e la disillusione derivano anche dalla discrasia che si percepisce tra la consapevolezza che i fedeli e soprattutto le fedeli hanno maturato riguardo alla presenza delle donne nella chiesa e ciò che l’istituzione è disposta a recepire. In una grande inchiesta promossa nel 2022 da ricercatrici australiane e inglesi e che ha coinvolto 17200 persone che si identificano come donne in tutti i continenti (5% di rispondenti italiane) è emerso come l’84% ritenga che sia necessaria una riforma della Chiesa e il 79% che questa debba veder incluse le donne a tutti i livelli della gerarchia.

Risultati analoghi erano emersi in molte chiese europee, africane, latinoamericane e australiane , come si sintetizzava nel numero del giornale tedesco Herder Tema dedicato al sinodo nell’agosto 2022 (e tradotto anche in italiano). La richiesta che le donne vengano pienamente coinvolte nella vita della chiesa e che se ne riconosca il lavoro (spesso gratuito) sale forte e chiara da tutto il mondo e non si può dimenticare il testo base su “Donne nei ministeri e negli uffici della Chiesa” approvato dall’assemblea sinodale tedesca in cui si chiede esplicitamente la questione dell’ordinazione delle donne venga riesaminata.
Ecco, mentre nel mondo le donne credenti chiedono un cambiamento profondo, che naturalmente spaventa, ma si percepisce come vitale, al di là del Tevere abbiamo un Papa che anche lo scorso dicembre, in un’intervista al giornale statunitense dei gesuiti “America” ha escluso la possibilità di accesso delle donne all’ordinazione ribadendo la vetusta contrapposizione tra ministero petrino e mariano, per la quale – in sintesi – agli uomini il governo, alle donne la comunione. Ovviamente si è poi schernito parlando di quante donne ha inserito in ruoli di responsabilità in Vaticano… ma anche quando parla di queste donne lo fa in un modo che esclude di fatto una qualunque prospettiva di parità.
Recentemente, ad esempio, ha incontrato la redazione “Donne Chiesa mondo”, mensile collegato all’Osservatore Romano, la cui prima redazione si era autosospesa in blocco a causa di ingerenze nella gestione del giornale quattro anni fa e che poi, dopo una mossa iniziale che sembrava di coinvolgimento di diverse anime dell’associazionismo femminile ecclesiale, è stata ricostruita d’ufficio dalla direzione del quotidiano vaticano.
In questo incontro, che voleva essere sicuramente promozionale rispetto all’apporto delle donne, il Papa ha usato espressioni del tipo: “Le donne hanno una capacità di gestire e di pensare totalmente differente da noi e anche, io direi, superiore a noi, un altro modo. Lo vediamo in Vaticano, anche: dove abbiamo messo donne, subito la cosa cambia, va avanti”. Ancora una volta idealizzare le donne va di pari passo con la loro degradazione: sono “superiori”, ma siamo noi uomini che “le mettiamo” in certe posizioni e, soprattutto, le donne sono un gruppo indistinto, che può venire incluso o meno in base alla volontà maschile, non la metà della popolazione che ha diritto ad avere gli stessi pregi, difetti, dosi di intelligenza e di aggressività degli uomini.
Se da un lato, dunque, c’è una chiesa che chiede di riconoscere ciò che già le donne sono e fanno, dall’altra c’è una gerarchia che ancora sente di essere investita della facoltà di gestire a proprio uso e consumo l’eventuale coinvolgimento di alcune, ben selezionate donne. E che probabilmente si aspetta anche di essere ringraziata per questo.
Certo, fino a qualche tempo fa quasi non si poteva parlare apertamente di parità nella Chiesa e di ordinazione femminile, ora se ne può parlare e questo è un passo importante da riconoscere, ma per chi si occupa di questi temi da anni, la sensazione è che la gomma sia diventata più elastica, più morbida, ma che il muro sia ancora lì, inamovibile, ineluttabile. E allora la fatica diventa la cifra dell’appartenenza per tanti fedeli.
Provando a guardare alla galassia dei “cristiani progressisti” che conosco meglio, riconosco in particolare alcune tendenze: c’è chi continua a combattere, opponendo critiche piene di amore tradito, ma finendo per alimentare un gioco al massacro che lascia profondamente insoddisfatti; chi si rassegna alla realtà e va avanti soprattutto per senso di responsabilità verso le persone di cui si occupa, ma col cuore altrove; c’è chi saluta l’immobilità con sollievo – perché dopotutto – in tanta incertezza almeno la chiesa resta immobile; c’è chi lascia la lotta e si rifugia in calde microcomunità di simili, in cui vive un’appartenenza soddisfacente, mentre si tappa occhi e orecchie rispetto a tutto il resto. E poi, certo, c’è anche chi – soprattutto in precisi contesti – continua a impegnarsi con generosità e speranza, penso ad esempio al grande lavoro portato avanti da Adriana Valerio a Napoli.
Io trovo che siano tutte reazioni comprensibili e degne di rispetto, ma anche tutte in fin dei conti destinate a rafforzare il mantenimento dello status quo: la rivoluzione non è avvenuta e non avverrà, la chiesa cattolica è patrimonialmente solidissima e, anche se in Europa arretra, i suoi numeri crescono nei paesi in cui c’è crescita demografica e che rappresentano il futuro dell’umanità.

Non ci sono cambiamenti all’orizzonte, tantomeno sconvolgimenti. Papa Francesco ha saputo catalizzare e poi prosciugare molte delle forze più riformatrici, perché i suoi modi e il suo linguaggio avevano fatto credere che le cose potessero davvero cambiare, ma nulla di sostanziale è stato toccato e intanto chi aveva imparato a opporsi con forza e rischio personale ai pontificati precedenti, si è smarrito e disorientato in questi ultimi anni, per i messaggi contraddittori che l’attuale vescovo di Roma manda, tanto attento e sensibile alle ingiustizie nel mondo, quanto incapace di riconoscerle in casa propria.

Forse bisogna davvero rassegnarsi a dare ragione a Mary Daly: “Una donna che chiedesse la parità nella Chiesa potrebbe essere paragonata a un nero che chiedesse la parità nel Ku Klux Klan”.

 

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