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a cura di Carlo Bolpin,  Anna Urbani   

Proprio dell’umano è che, per mezzo del corpo, entriamo in relazione con il mondo, comunichiamo e condividiamo emozioni, passioni, dolori. Il corpo è fattore costitutivo e integrante dell’identità personale. Siamo, infatti, riconosciuti dall’unicità del nostro volto, sorriso, sguardo, portamento, dalla capacità di creare, con il contatto fisico, bellezza e bontà oppure inimicizia, distruzione.

In modi diversi, anche nei casi non estremi, affrontiamo nella malattia, nella vecchiaia quel senso di estraneità e di disagio psichico per cui fatichiamo a riconoscerci nel nostro corpo, e di tenere insieme la continuità dell’unità soggettiva del passato e del presente. Accade lo stesso sentimento nei confronti degli altri corpi. Se, per le offese della natura o della società, il corpo diventa soggetto non più autonomo e capace di autodeterminazione, escluso da relazioni coscienti, cosa resta dell’umano? Della qualità di “umano”? Si può dire ancora “io sono il mio corpo” se questo corpo non ha più controllo di sé?
La vulnerabilità e la capacità (o/e necessità) di adattamento sono proprie della condizione umana, anche nella malattia e nella disabilità.
Nella Bibbia è dalla paura della morte che viene la tentazione di rimuoverla attraverso la volontà di possesso e di potere.
Per questo proponiamo riflessioni critiche sui diversi modi di esorcizzare il problema, che appare essere una caratteristica della modernità. Un tempo venivamo rassicurati da visioni sistematiche delle grandi agenzie religiose e culturali, che definivano chiaramente “l’umano”, e davano soluzioni ai dilemmi etici e giuridici, con criteri “universali”.
Sappiamo dall’evoluzionismo che il corpo umano non è quell’organismo perfetto, culmine e fine ultimo dell’evoluzione, e che la morte e ogni forma di “imperfezione” psico-fisica non sono elementi estranei inseriti nella buona creazione di Dio, ma sono costitutivi e requisiti fondamentali dell’evoluzione e della selezione naturale. Senza prospettive ulteriori, oggi, quindi, si cerca il senso del proprio corpo nelle tecnologie che lo potenziano artificialmente seguendo le individuali preferenze, per essere competitivi secondo i criteri utilitaristici della produttività e del consumo. Creazione di mondi artificiali, fluidità del corpo e cambio di molteplici identità nel tempo rendono non più definibile l’umano?
Alla conquistata libertà di autodeterminarsi spesso corrisponde la solitudine della coscienza individuale, con un'angoscia aggravata dall’incapacità di elaborare e di parlare di corpi sofferenti, come elemento disturbante che viene dunque rimosso o occultato in luoghi istituzionali, o spettacolarizzato nei mass media. Pensiamo anche alla rimozione collettiva e all’uso ideologico-politico dei corpi dei migranti e di quelli delle vittime delle tante guerre in atto. Consideriamo situazioni tanto diverse perché il problema va colto alla radice, e riguarda il riconoscimento o l’occultamento di ogni corpo, di “quel” corpo unico e insostituibile, e il significato che gli diamo, in che misura lo riconosciamo come parte di noi stessi, del nostro restare umano. Ogni riduzione di un corpo altrui è la riduzione del nostro a cosa morta. Capire questo significa farsi prossimo e curare il corpo di chiunque.
In questo stesso numero poniamo anche le implicazioni di queste considerazioni sul piano sociale, istituzionale e sanitario. Non affrontiamo le tematiche etiche e giuridiche del “fine vita”, per le quali rinviamo a contributi presenti nel sito di Esodo.
Pensiamo utile partire da un approccio “esistenziale”, esperienziale, che cerca di riflettere su di sé, sulla propria soggettività (mondo di relazioni, affetti, gioie, paure, desiderio di bellezza e di senso anche nelle situazioni negative). Significa imparare a parlare di e con il corpo proprio e altrui, sconosciuto, malato, amato... custode delle tracce della ricchezza della vita passata, condizione per costruire il senso del futuro come umano, non ripiegato su sé stesso. Il corpo ha una pluralità di significati e di carica simbolica. Forse riusciamo a imparare non da dottrine ma dalle opere dell’arte che raccontano ed esprimono ciò che altrimenti rimane nascosto nei volti e nelle stesse posizioni dei corpi. Significativo è che l’intera Bibbia racconti, con vari linguaggi della letteratura e della poesia, la pluralità di esperienze di relazione con i corpi (dalla creazione, alla morte in croce, alla resurrezione) e sia percorsa dal “corpo a corpo” tra Dio e l’umanità.
Ogni azione terapeutica di cura insegna che l’ascolto dei racconti dei corpi, anche di chi non riesce a comunicare, avviene con la carne, con il legame della tenerezza, che fa proprio e rielabora il trauma nella propria esperienza di lavoro interiore.
A partire da questo atteggiamento di cura e di ascolto si potrà ricostruire un nuovo umanesimo, che ridefinisca quel nucleo essenziale dell’umano, capace di fondare un’etica comune? Il corpo non si esaurisce mai nel dato biologico, ha sempre una dimensione trascendente che custodisce ed esprime la memoria comune relazionale, e rinvia a sentimenti, racconti, immagini, progetti, attese.
Certamente anche tra i redattori e i lettori rimarranno posizioni, sensibilità, prospettive diverse. Meno male! Dipende da esperienze di vita, di lavoro, di cultura. Importante è aver posto la necessità di non rimuovere gli interrogativi, mantenerli aperti e continuare il confronto.