di Giannino Piana

Alcuni accadimenti, che periodicamente coinvolgono direttamente o indirettamente le nostre esistenze, stimolano pareri e approfondimenti utili per meglio comprendere natura e cause degli stessi insieme a possibili azioni da intraprendere. Il teologo Giannino Piana , saggista e autore di una pluralità di testi aventi la dimensione etica della condizione umana come prevalente indirizzo di studio, indagherà mensilmente su un avvenimento particolarmente emblematico nel frattempo verificatosi.

La paura diffusa ed esplosiva suscitata dal diffondersi del coronavirus è sembrata a molti sproporzionata all’entità del fenomeno. Che ne pensa?

Il coronavirus ha messo il nostro Paese in una situazione senza precedenti. L’Italia si è improvvisamente trovata ad essere un Paese in quarantena con misure draconiane che hanno modificato gli stili di vita personali e i comportamenti collettivi. La paura non poteva che essere la logica conseguenza di questa situazione, aggravata in realtà anche dall'assenza di conoscenze precise – il virus appare tuttora invisibile e ignoto – e da una certa confusione negli indirizzi forniti dalle autorità di governo e dagli stessi esperti. Ma, dietro a queste, che sono le ragioni più immediate, non è difficile scorgere la presenza di ragioni più profonde, legate alla percezione che l’uomo ha oggi di sé e della propria presenza nel mondo. Gli enormi successi acquisiti attraverso la tecnologia lo hanno illuso di essere finalmente riuscito a realizzare il sogno prometeico. Il coronavirus, per la sua imprevedibilità e incontrollabilità, ha perciò avuto (e non poteva che avere) una portata destabilizzante; ad essere messo in scacco era infatti il mito dell’onnipotenza, la convinzione che l’uomo è venuto acquisendo di aver conquistato il pieno dominio di sé e il controllo totale della realtà. Di fronte a questa situazione frustrante, la paura assume una valenza antropologica: non è più indotta da un mondo non conosciuto e non dominato, come avveniva in passato – conoscenza e dominio del mondo hanno raggiunto oggi il massimo livello perseguibile – ; ha invece la propria origine nel dominio che l’uomo esercita nei confronti del mondo. E’ come dire che la paura da esterna si è fatta interiore; che essa nasce dalla consapevolezza della fragilità che caratterizza la condizione umana, e si riflette nella percezione della precarietà delle decisioni che l’uomo assume, nell’ambivalenza delle sue scelte e delle sue stesse conquiste.

 

Al di là delle radici antropologiche, non vi sono anche fattori oggettivi, che spiegano questa situazione di paura e di destabilizzazione? Che peso ha, a tale riguardo, il fenomeno della globalizzazione?

Non vi è dubbio che esistono dietro alla situazione di paura e di destabilizzazione segnalata fattori oggettivi che rinviano alla complessità del sistema dominante. Ciò che è avvenuto con un ritmo accelerato, in questi ultimi decenni, è il passaggio da un sistema “naturale” a un sistema  sempre più “artificiale” nel quale il moltiplicarsi di interventi manipolativi, che interagiscono tra loro con effetti a distanza non immediatamente prevedibili e valutabili, rende sempre più precario il controllo del sistema. A questo si aggiunge il fenomeno della globalizzazione, della quale il coronavirus rivela l’aspetto drammatico. La diffusione del virus, che – come ha ricordato l’Organizzazione mondiale della sanità – ha assunto i contorni di una vera pandemia, è la spia di una situazione di interdipendenza, dalla quale non è possibile prescindere. Del resto non sono soltanto le malattie infettive a rendere trasparente questo legame; pensiamo a come questo risulti evidente ogni giorno nel campo della comunicazione o – per rimanere nell’ambito di una grave pandemia di altro segno – alla rapidità con cui si è diffusa la crisi finanziaria del 2008, crisi che ha coinvolto l’intero pianeta.

 

E’ senz’altro giusto aver messo in campo, a livello sanitario, tutte le misure necessarie a debellare il coronavirus. Ma questo non basta. Non le sembra anche necessario cogliere questa occasione per ripensare il sistema economico attualmente dominante a livello mondiale?

Purtroppo temo manchi il coraggio di muoversi in questa direzione. La crisi del neocapitalismo è da tempo evidente, come è evidente il fallimento di una globalizzazione totalmente incentrata sulla logica del mercato, perciò ispirato a criteri esclusivamente quantitativi, dove a contare è soltanto la massimizzazione della produttività e del consumo e lo sfruttamento illimitato delle risorse ambientali. Si poteva sperare che la crisi finanziaria del 2008, che non aveva soltanto caratteri congiunturali ma strutturali e di sistema, fosse l’occasione per una svolta radicale. Ciò che si è verificato è stato invece un semplice timido aggiustamento del sistema, che ha lasciato in realtà le cose come sono. Il coronavirus è l’ultimo segnale di una situazione allarmante. Il fatto che sia qui in causa un bene fondamentale, come la salute, può forse concorrere a sviluppare una più ampia coscientizzazione e un più serio coinvolgimento partecipativo. La necessità di attenzione ai beni relazionali e alla qualità della vita, a partire dalla sua stessa condizione materiale, sembra diventata una priorità assoluta. Siamo qui di fronte a un’istanza biopolitica cui occorre dare con urgenza risposta.

 

La vicenda del coronavirus non chiama in causa soltanto misure di carattere strutturale, ma coinvolge anche i comportamenti, gli stili di vita personali. Si tratta di una vera e propria sfida rivolta a ciascuno. Come raccoglierla, trasformando la situazione di forte disagio in una opportunità?

La principale lezione che viene dalla situazione in atto è anzitutto – come già si è rilevato – la presa di coscienza della necessità di fare i conti con la fragilità e la precarietà, in quanto realtà che appartengono in maniera costitutiva alla natura umana. Si tratta di accogliere tali limitazioni, non subendole come frustrazione paralizzante, ma assumendole come stimolo a mettere in atto la nostra capacità di trasformazione. La costrizione a “stare in casa” può diventare, in questo senso, occasione per rivedere il nostro approccio alla vita e al vivere insieme, per ricuperare valori come la capacità di abitare se stessi – silenzio e solitudine favoriscono processi di interiorizzazione fondamentali per il ricupero della propria identità vera – , per riscoprire l’importanza della prossimità e per promuovere uno stile di vita fondato su una maggiore sobrietà.


     
Accanto a questi stimoli a livello personale, si possono identificare anche spinte all’assunzione di nuovi comportamenti sociali?

Penso senz’altro di sì e credo che la sfida sia costituita in proposito dall’esigenza di sviluppare un nuovo slancio solidale. I danni provocati dal coronavirus al sistema produttivo in tutti i settori sono noti a tutti. Le conseguenze di questa crisi saranno a lungo pesanti soprattutto nel mondo del lavoro. Per questo si esige un supplemento di solidarietà, con una rinnovata attenzione ai beni comuni – la salute è il più importante di questi – assicurandoli a tutti, a partire dai soggetti più fragili, attraverso interventi concreti ispirati a criteri di giustizia, consolidati dalla presenza dei  valori del dono e della gratuità.