di Carlo Bolpin  

Siamo nel pieno del percorso sinodale. Si è avviata quella “creatività” auspicata da papa Francesco? O sta prevalendo un clima di stanchezza, di pessimismo e di sfiducia sulle possibilità di far sentire la propria voce all'interno delle strutture piramidali della chiesa ufficiale? Spero di sbagliare ma mi pare che, ben che vada, si resti tra “fare perché bisogna” e l’improvvisazione e lo spontaneismo della buona volontà di sperare.

Rigenerare la fede

Il Sinodo non può essere una semplice consultazione, una raccolta di lamentazioni e di richieste, ma comporta un’esperienza vissuta e condivisa di ascolto e quindi di rigenerazione della fede. O è una pratica di chiesa comunitaria o è al più una modernizzazione societaria, dell’organizzazione della chiesa-società. Se rimane questa visione riduttiva e “mondana” della chiesa - il clericalismo denunciato da Francesco continuamente - non ci sono le condizioni per “camminare insieme” e per la chiesa “semper reformanda”.
Per quanto capisco e vedo, due sono le questioni, che ci bloccano nella frustrazione e nella pigrizia, e che sono sottovalutate e rimosse, che non ho trovato considerate adeguatamente.

Rassegnazione e ripetitività

In primo luogo le realtà ecclesiali, ai diversi livelli, rispecchiano la situazione dell’intero nostro paese: rassegnata e di vecchi, chiusi nella conservazione delle proprie posizioni (culturali, esistenziali, di privilegi anche piccoli), che sentono minacciate, senza l’energia giovanile e senza nemmeno proiettarsi nel futuro dei figli ai quali si vuole trasmettere solo tranquille sicurezze e non speranze capaci di mobilitare risorse di cambiamento. Anche nella chiesa siamo viziati da questa pigrizia. Da una stanchezza ripetitiva sia di chi continua a “praticare” sia di chi esce o viene emarginato, sia di chi ha paura del nuovo sia di chi vede che nulla cambia.
Da tempo si parla di “scisma silenzioso”, dell’uscita di tante e tanti in vari modi dai rapporti con la chiesa “ufficiale”, senza che si creino traumi né aggregazioni nuove: si diffondono forme di “fede fai da te” con un miscuglio -spesso senza consapevolezza - di dottrine e culti vissuti e non razionalizzati. Non c’è più bisogno di un “credo”, di una comunità confessante. Ciascuno ha una sua identità plurale e fluida senza alcun bisogno di dare ragione se non a se stesso.

La frattura vertice base

Questo processo ci porta a una seconda questione, molto ignorata. In molti articoli e documenti si parla, infatti, della necessità di superare la frattura tra “vertici” e “base” nella chiesa. Si considera questo come problema centrale.  Ma anche per il processo indicato precedentemente, determinanti fratture si sono prodotte trasversalmente dentro il vertice e dentro la “base”. Anche questo processo avviene stancamente, in modo rassegnato, ignorato, per evitare la messa in discussione delle proprie certezze, delle proprie consolidate posizioni, che comporterebbe affrontare questo nodo.
Pongo solo la domanda: tra i Vescovi e, nella diocesi, tra il Vescovo e i presbiteri e tra questi ultimi, esistono rapporti di comunità, sono testimonianza di pratiche di fraternità? O ciascuno vive nel proprio spazio di relazioni? rimangono “addormentate” le conflittualità, le divergenze esistenti tra loro? Sarebbe interessante capire come vengono vissuti e compresi questi problemi e che rapporti ci sono tra questo problema con le condizioni “sacrali” del “sacerdote” (celibato, tipo di selezione e di formazione e non solo).
Ma in questa sede il problema che ci riguarda direttamente è che all’interno del “popolo” verifichiamo una profonda frattura tra modi di dire e di vivere la fede profondamente diversi, spesso opposti, incompatibili tra loro, per linguaggi, categorie, pratiche, tali da renderli incomunicabili. Non basta l’unica fede nell’unico Cristo, non basta l’unico Credo, culto eucaristico. Come si può, quindi, rifarsi alla voce del Popolo? a quale Popolo? Tema da approfondire.

Agire su tre livelli

Penso occorra capire come muoversi a tre livelli.
Sarebbe innanzitutto necessario servirsi nella comunità degli strumenti metodologici per favorire la comunicazione e forme organizzative non rigide (ma quale sacerdote vi “sottometterebbe” la propria “sacra” funzione?).
 In secondo luogo occorrerebbero analisi sociologiche e antropologiche sulla pluralità diversificata e fluida di modi di vivere la fede: ma vedo già chi pensa che così si ridurrebbe il mistero della fede (gestito dalla gerarchia) a un dato analizzabile, in certo modo quantificabile. Lascio agli esperti chiarire questi punti.
Duemila anni di storia hanno messo una forte distanza da Gesù Cristo. Di fronte ai “10 nuclei tematici” proposti nel “Documento preparatorio Sinodo 2023 Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione” l’interrogativo che mi viene immediato è se la chiesa sia un ostacolo alla fede, se le sue istituzioni e dottrine siano gabbie, mura all’incontro con Cristo. Vale anche per noi come in Mc 7,1-13 “Ed egli rispose loro: «Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini. Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini». E diceva loro: «Siete veramente abili nel rifiutare il comandamento di Dio per osservare la vostra tradizione. Così annullate la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi. E di cose simili ne fate molte».
Al terzo livello, più radicalmente, si ripropone quindi la domanda di Gesù: «Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» Potrebbe, infatti, rimanere la chiesa senza la fede, la religione - il Grande Inquisitore che respinge Cristo. È questa la tentazione presente fin dai primi secoli nella chiesa che fonda la propria missione non sullo Spirito inviato da Cristo ma sulle istituzioni, sui codici, sulle dottrine, sui culti e sui poteri assimilati dal mondo. 

Una crisi cristologica

Nel documento che Esodo ha proposto alla rete di Viandanti abbiamo scritto che “Il futuro del cristianesimo infatti non riguarda, sociologicamente, il calo quantitativo delle pratiche religiose, né il venir meno della capacità della Chiesa di orientare, moralmente e politicamente, l’opinione pubblica e gli stessi credenti. La crisi è teologica, cristologica, mette in questione l’annuncio di Gesù Cristo e il significato della sequela.
Il problema è se crediamo in Gesù Cristo come evangelo vivente oggi o no. Credo stia qui il valore di fondo di Francesco che distingue i destini della cristianità occidentale da quelli della fede e della chiesa cristiana, e insegna a vedere il Regno nei poveri, nei migranti disperati, negli affamati, negli oppressi, negli ultimi, uomini e donne, vecchi e bambini”.
E ancora “Centrale per noi è la domanda di Gesù “Chi dite che io sia?”, capace di far chiarezza e di orientare contenuti e metodo del percorso sinodale. “Il nodo è la capacità di testimoniare la carità, all’interno delle comunità e nella società, non creando istituzioni ma costruendo comunità di accoglienza, solidarietà.”
Il percorso sinodale non può mantenere una chiesa autoreferenziale, che chiude Cristo nei propri linguaggi e istituzioni, e impedisce al suo annuncio di uscire nei luoghi dove vivono donne e uomini, nelle periferie del mondo e dell’esistenza.
Per questo papa Francesco preme continuamente sulla necessità della chiesa in uscita, per non chiudere Cristo nelle proprie mura, per non addormentarlo dentro di noi: accompagnando Cristo nelle vie secondo il suo stile di relazione e di creazione della comunità.